domenica 16 novembre 2014

DECLINO ?


Ho ritrovato questa foto di oltre mezzo secolo fa, avevo sette anni e per la prima volta mi sedevo al posto di guida. Guardandola mi sono sentito privilegiato.
Era il 1960, il famoso anno del boom, e nella foto spiccano due dei suoi simboli più noti: la mitica “600” e una certa disinvoltura nel fare figli. Mi sono sentito privilegiato perché mi è capitato di vivere attraversando i decenni (economicamente) più floridi, quelli in cui era ovvio che il futuro sarebbe stato più ricco e più bello del passato, quelli in cui la tecnologia ci ha stupito con effetti speciali, quelli in cui “le magnifiche sorti e progressive” su cui ironizza Leopardi sembravano realizzarsi alla faccia del suo pessimismo.
E invece ora pare proprio che la festa sia finita. A parte i politici che -per mestiere e convenienza- ci ripetono che “la crisi è ormai alle spalle” e che “il peggio è passato”, gli economisti la pensano diversamente. Per togliere ogni dubbio J.K.Galbraith ha intitolato il suo ultimo saggio “The End of Normal” e invita tutti a dimenticarsi la normalità e ad abituarsi alla “economia del meno”. Dice Galbraith che l’instabilità e la crisi sono ormai il pane quotidiano e mai più avremo la crescita così come l’abbiamo conosciuta. Dunque, meglio adattarsi al nuovo stato e vivere al meglio.
Insomma inutile sperare nel lieto fine, non arriveranno i “nostri” a liberarci, né messia risolutori.
E’ questo il famoso “declino del paese”?
Immagino di si. In pratica cosa ci dobbiamo aspettare? E’ molto semplice: di essere più poveri.
Di avere meno certezze e meno soldi, di doverci far durare il più possibile quello che abbiamo (dalla macchina ai vestiti), meno viaggi, meno cinema, meno pizzeria. Fino a qui è dura, ma non è una tragedia. Il peggio è doverci accontentare di meno prevenzione, meno diagnostica (analisi, ecografie, tac), meno accesso ai servizi sanitari, meno istruzione, meno cultura.
Questo significa essere più poveri: è tosta ma è così, meglio non prenderci in giro.
Pensavamo che questo non ci sarebbe mai accaduto, che queste cose succedessero solo nel terzo mondo, in quelli che chiamavamo “paesi in via di sviluppo” nel senso che stavano percorrendo la via che noi avevamo già percorso… e invece qualcosa si è inceppato, forse abbiamo voluto strafare, abbiamo fatto i conti senza l’oste e ora ci rendiamo conto che “le magnifiche sorti e progressive”, non erano progressive all’infinito.
Ovviamente mi dispiace, ma non mi terrorizza.
Mi sento un po’ in colpa per il privilegio di cui -senza merito- ho goduto perché chi arriva adesso non ne godrà, ma non mi terrorizza.
Non mi fa piacere pensare che forse i miei nipoti non avranno la possibilità di studiare e di viaggiare che ho avuto io e che hanno avuto i miei figli, ma non credo che per questo saranno necessariamente persone peggiori e meno felici.
Ho conosciuto (e vissuto in) paesi in situazioni economiche ben peggiori di quella “declinata” che si profila nel nostro paese, ma questo non impediva alle persone di cercare e trovare un loro equilibrio, di vivere le loro relazioni, di immaginare e realizzare progetti.
Per questo non mi terrorizza perché penso che sia possibile vivere bene ed avere buone relazioni con quanti condividono gli anni della nostra esistenza, anche senza cambiare macchina e vestiti troppo spesso.
E poi la vita di ciascuno è unica, non ha molto senso fare confronti; forse -chissà- quello che noi chiamiamo declino sarà un giorno descritto come un ridimensionamento dei bisogni e una ridistribuzione più saggia delle risorse.  O almeno mi piace crederlo.

domenica 9 novembre 2014

IL RIFIUTO DELLA COMPLESSITA'

Vuoi più bene a papà o a mamma? Sei stato buono o cattivo? A scuola è andata bene o male?
Ci sono alcuni aspetti dell’infanzia dai quali non riusciamo mai a staccarci del tutto. Uno di questi è la convinzione che i giudizi debbano e possano essere ridotti sempre a una scelta secca tra due opzioni.

Anche se da bambini percepivamo nettamente l’assurdità di alcune domande e l’impossibilità (anzi l’ingiustizia!) di ficcare dentro un si o un no tutto quello che in una scelta secca non ci può stare, da adulti -una vendetta?- pretendiamo che i giudizi che riguardano le relazioni,  la politica, l’economia, il lavoro, la vita, siano riconducibili ad un impossibile on-off.
La realtà è sempre più complessa, conviene farci pace. La complessità non è un sopruso a cui ribellarsi, è semplicemente come sono fatte le cose, come siamo fatti noi.
Spesso la complessità non ci piace, vorremmo che tutto fosse più semplice e più rapido: così non è e non ci stiamo. Ci scatta la nostalgia della lavagna divisa in due: buoni e cattivi, degli indiani e dei cowboys…
Non avremmo mai voluto sapere che ci sono anche i quasi buoni, i certe-volte cattivi, i mezzosangue, i traditori, gli indiani che sembrano cowboys; non avremmo mai voluto imparare che senza-se-e-senza-ma va bene per le campagne elettorali e gli striscioni nei cortei e invece la vita è strapiena di “se” e di “ma”, e vivere, capirsi e amarsi è possibile solo se impariamo tener conto con saggezza di questi “se” e di questi “ma”…; non avremmo mai voluto capire che la odiatissima espressione del professore al liceo dipende dal contestonon riguardava solo la sintassi latina, ma tutto quello che ci sarebbe capitato dopo.
E invece tutto questo l’abbiamo saputo, l’abbiamo imparato, l’abbiamo capito: lo sappiamo benissimo, ma ci piace giocare a fare i bambini e far finta che le cose siano semplici, che sia possibile ridurre tutto a on-off e che –se non è possibile- è perché qualcuno ci sta truffando…
Intendiamoci: altro è il giudizio, altro è la decisione. 
Il giudizio è necessariamente complesso, sfumato, legato a variabili non prevedibili, a volte contraddittorio…, ma questo non può tradursi in un alibi per non decidere nulla, o per rimandare all’infinito cosa fare. 
Decidere significa -appunto- tener conto del giudizio e della sua complessità e correre il rischio di fare o non fare, andare o non andare, prendere o lasciare. E’ sul piano della singola decisione che vale la regola dell’on-off, è lì che non ci sono nascondigli… non il contrario.
Com’erano tranquillizzanti le storie in bianco e nero… (maledetti grigi!)

sabato 12 aprile 2014

UN'OPINIONE SU TUTTO

Perché non chiarire meglio la mia posizione sulla riforma del senato?
Perché non precisare se giudico vantaggiosa l’entrata di Etihad in Alitalia, se condivido il fiscal compact, quanto ritengo corretto che la Crimea si autodetermini con un referendum, se mi sembra una buona idea portare Totti ai mondiali e a che condizioni sono favorevole alla eutanasia?
Semplice: perché non lo so.
Perché  non so veramente cosa sia e come funzioni il fiscal compact, non sono un esperto di politica internazionale e non so quasi nulla di diritto costituzionale. Di Totti so che ha una bella moglie e di Alitalia che non è mai il volo più economico quando devo viaggiare.
Sono tante le cose che non so, che ci posso fare?

A.  Posso fingere di capirci, non è difficile incrociare quattro idee su qualunque argomento, sostenere l’opinione che mi è più simpatica (o, meglio, quella appoggiata da chi mi è più simpatico) e attaccare quella di chi la pensa diversamente:  è lo sport più diffuso. Uno sport che, con qualche differenza negli avverbi (“innegabilmente” è molto più elegante di un banale “certamente”), è lo stesso nei bar di periferia e nelle cene di “livello”.  È la soluzione più facile e diffusa, ma non è un bello sport: non serve a niente, non aiuta a capire e non aiuta a scegliere. Riempie solo il tempo di parole.

BPosso non toccare mai il merito e limitarmi ad auspicare gli esiti migliori: “speriamo che si trovi una via d’uscita”, “che si mettano d’accordo”, “che questa crisi finisca presto”, “che non vincano sempre i soliti”.  È la soluzione più innocua e a buon mercato, ma è “moscia”, totalmente inutile e fa il verso alla “pace nel mondo” e al “God bless America” delle miss appena elette e di certi parroci di paese alla fine dei matrimoni. Non serve neanche a riempire il tempo.

CPosso informarmi, entrare nel merito delle questioni, cercare di farmi davvero un opinione mia invece di prenderla in prestito da qualcuno. Sarebbe certamente l’opzione più seria… a condizione di avere un sacco di tempo a disposizione (=non aver bisogno di lavorare), possedere una cultura enciclopedica, una rigorosa capacità di analisi e amici competenti (e comunque non basterebbe). Chi se lo può permettere?

Temo che alla fine dovrò fare pace con la realtà:
-          ci sono e ci saranno molte materie del cui merito non so e non saprò mai nulla: la realtà è sempre più vasta e complessa di quanto appare
-          ci sono e ci devono essere alcune questioni sulle quali posso (e devo) permettermi di approfondire, capire e farmi davvero una mia opinione (è chiaro che devo scegliere quali e spero di non ridurmi a “undici modi di fare la crostata alle visciole”)
-          è buona norma non parlare di quello che non so e distinguere con chiarezza quelle che sono opinioni mie da quelle che mi limito a riferire o alle quali semplicemente aderisco (magari cercando di essere in grado di dire perché)
-          delegare (non è una parolaccia, né una sconfitta) a chi è competente le decisioni da prendere, cercando di aumentare il più possibile il mio livello di consapevolezza, ma senza pretendere di saperne più di chi ha dedicato una vita a studiare quella questione; accettando –inevitabilmente!- il rischio di sbagliare nel decidere di chi fidarmi: potrei beccare il medico, l’avvocato o il commercialista incompetente, o che -nel mio caso- sbaglierà…
-          anche le questioni cosiddette “etiche”, sulle quali sembra che la competenza non serva, sono questioni complicate (forse anche più di quelle tecniche) e prima di sparare sentenze sarebbe il caso di farsi un giro -senza pregiudizi- soprattutto tra le ragioni di chi non la pensa come me.



sabato 5 aprile 2014

PADRE E' CHI IL PADRE FA ?

Chi non conosce la bellissima pagina di Khalil Gibran che parla dei figli? 
I tuoi figli non sono figli tuoi. Sono i figli e le figlie della vita stessa.”

Non è un suggestivo paradosso poetico: è la semplice verità. Una verità così sconvolgente che i padri ci mettono anni a capirla (e certi non ci arrivano).
Diventare padre è una delle esperienze più belle e profonde che si possano vivere. Non si tratta del fatto biologico (c’è chi diventa padre e neanche lo sa), ma del significato che attribuiamo a questa relazione e dei sentimenti che essa suscita.
Tenere in braccio un neonato pensando che la sua vita dipende in tutto e per tutto da te è gratificante (e terrificante). E come spesso accade  quando si parla di sentimenti gratificanti, corriamo la tentazione di “congelarli” come se fosse possibile mantenerli uguali nel tempo. E invece le relazioni tra le persone (e così i sentimenti) cambiano, perché cambiano le situazioni e le persone stesse.
Per quanto poetica e gratificante, l’istantanea del giovane sorridente che tiene in braccio un neonato è solo il primo fotogramma di un film che durerà alcuni anni, un film la cui qualità e il cui spessore dipenderà dai fotogrammi che seguiranno. Il padre non sarà sempre quel giovane sorridente e -soprattutto- il figlio sarà rapidamente molto diverso dal fagottino della foto e avrà bisogno di cose non acquistabili in farmacia o al supermercato. I due cambieranno insieme inventandosi (si spera) un modo di comunicare e scambiarsi informazioni utili.
Le funzioni di cura materiale e quelle di cura “culturale” (quale baby sitter, quali giocattoli, quale scuola, quali film, ecc.), si confondono spesso tra loro. Poi  gli anni passano, la cura materiale non serve più (a volte resta il supporto economico, ma prestare un bancomat è diverso dallo scegliere un viaggio) ed anche quella “culturale” finisce gradualmente per non essere più né necessaria, né richiesta.
E a quel punto cosa rimane? La risposta è semplice: della funzione di padre non rimane nulla, non deve rimanere nulla. Se rimane qualcosa vuol dire che non ha funzionato bene.
Benché la sua intensità ci porti a considerare questa esperienza tra quelle “per sempre”, è importante saper distinguere la funzione (che finisce), dalla relazione d’affetto (che -si spera- rimane).
Nella percezione affettiva i figli sono figli per sempre (senza troppi distinguo!), ma la vera sfida è proprio quella di riuscire a sentirsi padri anche quando la funzione di padre non serve più.
Forse vale la pena rileggere con attenzione qualche altro verso della pagina di Gibran:
“Tu li metti al mondo ma non li crei.
Puoi dar loro tutto il tuo amore, ma non le tue idee. Perché loro hanno le proprie idee. Tu puoi dare dimora al loro corpo, non alla loro anima.
Puoi cercare di somigliare a loro. ma non volere che essi somiglino a te. Perché la vita non ritorna indietro, e non si ferma a ieri. " (Khalil Gibran, Il Profeta, 1923)



domenica 23 marzo 2014

UN SIGNOR STIPENDIO ?

A parte chi il lavoro non ce l’ha (e quindi non guadagna niente) e chi lavora in proprio (e guadagna in  proporzione a quanto è richiesto ed apprezzato), la maggior parte di coloro che lavorano ricevono uno stipendio concordato con chi li ha assunti.
Come tutti sanno ci sono lavori pagati di più e lavori pagati di meno: è -almeno questo- un dato di fatto che generalmente nessuno mette in discussione.
Ma quali sono i criteri per stabilire perché un lavoro vale più di un altro e quanto vale di più? Esistono criteri oggettivi che permettono di definire uno stipendio “giusto”, “basso” o “alto” ?
E’ ragionevole fissare dei limiti -in alto e in basso- all’ammontare del compenso stabilito?
La partita si gioca intorno a tante variabili, difficili da definire e ancor più da misurare: non c’è da stupirsi, dunque, che questo sia un argomento sul quale ci si può accapigliare all’infinito senza temere che prima o poi si capisca chi ha ragione. E’ il paradiso dei ‘litigatori’ di professione!
Senza pretendere di risolvere la questione, vale però la pena di dare un’occhiata a queste variabili, se non altro per capire quanto sia difficile identificare criteri condivisi.
La più facile delle variabili -l’unica che si può misurare in modo univoco- è il tempo di lavoro. Si concorda una retribuzione oraria e si moltiplica per le ore lavorate… ovviamente a parità di “livello” (e qui le cose cominciano a complicarsi): certe mansioni sono valutate più “basse” di altre, perché richiedono minori competenze e minori capacità ed è considerato “giusto” che siano pagate di meno. Che costruire occhiali richieda più competenze e capacità di caricarli su un camion è evidente, ma in altri casi misurare e paragonare le competenze e le capacità non è così facile. Ovviamente non finisce qui. Ci sono ben altre variabili in gioco: ad esempio il rischio e la responsabilità. Come quantificare la responsabilità di un medico che firma una diagnosi o il rischio che affronta il chirurgo in  sala operatoria? Quanto vale la sua esperienza maturata nel tempo? Vale più o meno di quella richiesta al pilota di un aereo di linea? Sono paragonabili la fatica di una badante che si occupa a tempo pieno di un disabile grave e quella di un amministratore che deve far quadrare un bilancio? E quanto vale la creatività di chi non deve semplicemente “fare”, ma deve “inventare” cosa fare? Un amministratore delegato di una società con migliaia di dipendenti, dalle cui scelte dipendono il lavoro di molti e il funzionamento di servizi importanti, va pagato più o meno di un calciatore di successo, di un giornalista o di un’attrice? Ma -si può obiettare-  il calciatore, il giornalista e l’attrice fanno guadagnare molti soldi con la loro notorietà, ecco perché vengono pagati molto… e la notorietà come la classifichiamo? Tra le competenze o tra le responsabilità? O, alla fine, conta solo il mercato, con buona pace di ciò che sarebbe giusto e ragionevole? Forse sì, o forse -in questo caso- quello che chiamiamo mercato altro non è che il principio di realtà con cui dobbiamo fare i conti. O no?

domenica 2 marzo 2014

YOU ARE HERE

Che c’è di più rassicurante che sapere dove sei?
E’ bello potersi identificare con quel pallino disegnato sulla mappa (o lampeggiante sullo schermo) che ti dice “tu sei qui”.
Se non sai dove sei non puoi decidere dove andare, non sai se la tua meta è vicina o lontana, se è alla tua portata o no, se devi andare avanti o indietro… insomma se non sai dove sei, non puoi muoverti. E, se lo fai, lo fai alla cieca.
Purtroppo non sempre c’è un pallino lampeggiante ad aiutarti, soprattutto quando il problema non è la strada del weekend, ma la tua vita e quando vorresti sapere non “dove” sei, ma “a che punto sei”, se vale la pena proseguire, se è meglio cambiare…
Ci è concesso abitare solo una frazione dello spazio in una frazione del tempo, per attraversarle con consapevolezza dobbiamo saperci “situare” nel fluire tempo e nelle proporzioni dello spazio in cui ci muoviamo, così da cogliere il significato di ciò che viviamo nel contesto della storia collettiva.
Il crinale è sottile: c’è il rischio di cadere nel minimalismo della nostra piccolezza (se la interpretiamo come insignificanza rispetto alla storia dell’umanità) o quello opposto, di comportarci come se fossimo il centro dell’universo e le sorti della storia dipendessero solo da noi: “Fingi di credere che il mondo giri intorno al sole, ma in fondo in fondo sei persuaso che giri intorno a te” (1)
Il crinale è sottile e non è facile percorrerlo, ma c’è in ballo il nostro equilibrio.
Ognuno alla fine fa i conti con i propri problemi, piccoli o grandi. Un problema oggettivamente piccolo può essere soggettivamente grande e viceversa. Come puoi dire se il tuo problema è piccolo o grande? Perdere il lavoro è certamente più grave che perdere l’autobus, ma perdere la salute è più grave che perdere il lavoro…
Il crinale è sottile. Bisogna capire dove si è, a cosa si è vicini e da cosa si è lontani per ristabilire le proporzioni. Servirebbe un pallino disegnato sulla mappa, o lampeggiante sullo schermo…

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(1)     - Miguel Zamacoïs (Almanacco delle lettere francesi e straniere, 1924)

sabato 22 febbraio 2014

COSA, COME, PERCHE'

Per molti (troppi) anni sono stato convinto che i “perché” fossero più importanti dei “cosa” e dei “come”.
I valori -pensavo- sono la cosa più importante: sono  i valori a spingerti ad impegnarti, a dare senso a quello che fai.
Il cosa e il come -pensavo- vengono dopo e poi se il cosa non funziona e il come è sopra le righe…  ci sono sempre i valori a giustificare tutto, perché (si sa) i valori non si discutono (nei valori si crede), i valori sono perfetti (per definizione), i valori assolvono (in perfetta buona fede), i valori aggregano (noi che crediamo in…, noi che siamo stufi di…, noi che sogniamo un mondo in cui…), i valori non sono difficili da condividere (non costa niente, basta “ritrovarcisi”…).
Ora la penso diversamente.
Penso che il cosa e il come vengano prima.  
Penso che la denuncia di quello che non funziona e l’analisi dei problemi fine a se stessa siano esercizi tanto gratificanti quanto inutili se non si ha la capacità di proporre soluzioni concrete (non gesti simbolici!) fatte di azioni sostenibili e articolate la cui efficacia sia almeno credibile. Affermare che riducendo l’evasione fiscale si renderebbero disponibili risorse preziose e poi non saper indicare come fare per ridurla è ridicolo come affermare che se non ci fossero le malattie vivremmo tutti meglio.
Il come non è l’ultimo dei dettagli: è la prima delle questioni.
Se non so dire come, è meglio che sto zitto: i predicatori ci avanzano.
Se pretendo che il mio come sia il migliore solo perché è il mio, senza passare dal dialogo e dal consenso, sto evitando di confrontarmi con la realtà e quindi non sono credibile.
Se il mio come passa per la ghigliottina e la negazione degli altri ho il sospetto che non sia figlio di un’analisi ragionata, ma di una rabbia covata. E non servirà a molto.
Penso che il cosa e il come vengano prima perché sono la garanzia della concretezza del mio pensiero.
perché mi interessano ancora, ma solo perché “finali”,  non “causali”, li considero valori di arrivo, un lusso che mi posso guadagnare solo attraverso ragionevoli “cosa” e credibili “come”.

domenica 9 febbraio 2014

TANTO PER FARSI UN'IDEA

Si fa sempre molta confusione quando si parla di stipendio e di guadagno. Spesso la confusione tra lordo, netto, costo ed altre diavolerie, finisce per alimentare convinzioni sbagliate e sensi di frustrazione.
Quando parliamo di stipendio, ci riferiamo al “netto” che va in tasca al dipendente, al “lordo” della sua paga o al “costo” per l’azienda? Sono tre cose molto, ma molto diverse!
Troppo spesso liquidata come “tecnica”, è una questione che riguarda la sostanza del lavoro.
Provo a spiegare la faccenda (cercando di non farla troppo complicata) con un esempio.
Se la mia busta paga “pulita” è di 1.500 euro al mese e le mie mensilità sono 13, alla fine dell’anno avrò guadagnato “netti” 19.500 euro.  Di tutto il resto -molti dicono- “non so e non voglio sapere”. 
Così, tanto per avere un’idea, per avere un netto di 19.500 euro, bisogna che il mio “lordo” sia di circa 31.000, di cui 9.000 serviranno a pagare le mie tasse e 2.500 a pagare i miei contributi INPS, ecco perché me ne restano solo 19.500. Dunque a me “sembra” che il mio guadagno sia di 19.500, ma il mio stipendio pieno è di 31.000.
E non è finita. A questo punto l’azienda per cui lavoro deve aggiungere ai contributi e alle tasse che mi ha trattenuto la parte a suo carico (INPS e INAIL) che fanno più o meno altri 8.500 euro, pagare le tasse regionali (IRAP) altri 1.500 euro e infine accantonare la mia quota di liquidazione (TFR) 2.500 euro: totale finale 43.500. Questo è il mio costo totale… anche se a me entrano solo i 19.500 netti (1.500 al mese).
Riassumendo: se in un anno io “guadagno” 19.500, il mio “stipendio” è 31.000 e il mio “costo” è 43.500, cioè ben più del doppio di quello che “guadagno”!
(Ho un po’ arrotondato le percentuali, ma la sostanza è questa).

Quando leggo sul giornale che Tizio “guadagna” 100 mentre Caio “guadagna” 200, vorrei capire se 100 è quello che guadagna, quello che è il suo stipendio lordo o quello che costa in totale… c’è davvero una grande differenza! Insomma se guadagno i miei 1.500 euro al mese e un giornale scrivesse che guadagno 43.500 euro l’anno, mi scoccerebbe se chi legge si facesse l’idea che ogni mese mi metto in tasca 3.625 euro (cioè 43.500 diviso 12) !

Naturalmente tutto questo non c’entra niente col fatto che il mio stipendio sia giusto o no.
Sarebbe interessante conoscere i criteri in base ai quali riteniamo “giusta”, “troppo alta” o “troppo bassa” la retribuzione di un lavoro. Non sono poche le variabili di cui tenere conto: la competenza che occorre per farlo, la responsabilità che comporta, la fatica che richiede, il tempo che impegna, i rischi connessi…. Non è facile valutare, dipende dalla combinazione delle variabili e dal peso che vogliamo dare a ciascuna di esse: un lavoro potrebbe richiedere molta competenza e comportare poca responsabilità o viceversa, poca fatica e tanto rischio o il contrario e così via. Cosa è giusto pagare di più? la responsabilità? la fatica? la durata? il disagio? il rischio? la competenza? la creatività?
Quale che sia il criterio che consideriamo più giusto, la realtà è molto più pragmatica: non è ciò che sarebbe (o ci sembra) essere giusto a definire il compenso di un lavoro, ma semplicemente il punto di equilibrio tra quante persone sono disposte a farlo e a quante persone serve che sia fatto.
Se sono l’unico idraulico in un paese rimasto isolato il mio lavoro sara molto richiesto e ben pagato, se siamo dieci idraulici il mio lavoro varrà molto meno, se sono l’unico idraulico in un villaggio africano senza acqua, non interesso a nessuno.
Certo, tutto questo se uno il lavoro ce l’ha. Ma questa è un’altra storia.


sabato 18 gennaio 2014

QUARANTACINQUE ANNI

Mercoledì 22 gennaio 1969 ritiravo la mia prima Vespetta 50 verde mela. Tra pochissimi giorni, il 22 gennaio 2014 (per combinazione anche quest’anno un mercoledì) saranno 45 anni che mi sposto su due ruote.
Certo, solo una banale ricorrenza, tuttavia ho già avuto modo (1) di esprimere la mia convinzione che muoversi abitualmente nel traffico su due ruote non è solo questione di praticità, ma una scelta che -anno dopo anno- finisce per condizionare la filosofia di vita.
Certe mattine, quando non mi va di affrontare la giornata, ricordarmi che prenderò la moto per andare in ufficio mi addolcisce la pillola.
Mi sono chiesto più volte perché mi piaccia così tanto guidare la moto e credo di averlo scoperto: è una questione di inclinazione. No, non nel senso che bisogna esserci portati, proprio nel senso fisico del termine: il fatto che la moto si può inclinare.
La macchina (nel senso di automobile) non può farlo, la macchina può solo banalmente cambiare direzione, spostarsi verso sinistra o verso destra, le manca la terza dimensione (la più preziosa!): l’inclinazione.
L’inclinazione in movimento è l’essenza della motocicletta. Chi guida la moto sa cosa voglio dire: sa che l’inclinazione è il segreto della flessibilità, è la magia che ti fa curvare senza girare il manubrio, è l’artificio che ti fa accorciare o allungare la traiettoria, la tecnica per evitare le buche dell’ultimo secondo, l’eleganza che fa assomigliare il movimento della moto al correre dell’uomo (avete presente la foto di Mennea che esce dalla curva nella finale dei 200 a Mosca nell’80?).
Inoltre -secondo me- la capacità di inclinarsi in movimento è una potente metafora: della capacità di non essere banali, di non paralizzarsi davanti agli aut aut, di inventare la terza via che non è né A né B, ma che ha dentro un po’ di A e un po’ di B… (l’avevo detto che la moto è una filosofia di vita).

[Per non dire del vento sulla faccia: un “tachimetro a pelle” che ti dà la percezione della velocità meglio e prima del cruscotto… sensazioni che dietro un parabrezza non esistono…]


sabato 4 gennaio 2014

VENTIQUATTRO MODI PER TRUCCARE LA COMUNICAZIONE …e non riuscire più a capirsi

Jesse Richardson, Andy Smith e Som Meaden, tre creativi australiani, hanno raccolto in un poster 24 tra gli inganni logici più comuni, ciascuno accompagnato da un esempio.https://yourlogicalfallacyis.com/
Scorrendoli non è difficile riconoscere molte delle abitudini comunicative utilizzate nei talkshow e nei titoli dei giornali.
Temo purtroppo che la malattia sia contagiosa e che -quasi senza accorgercene- noi stessi, nella nostra vita di ogni giorno tendiamo ad usare queste brutte modalità dimenticando chelo scopo del nostro comunicare non è aver ragione a tutti i costi, ma riuscire a capire e a capirci meglio.
Suggerisco di leggerli con attenzione perché prevenire è meglio che curare…

(NB-Molti degli esempi sono un po’ troppo “anglosassoni” e meriterebbero un adattamento semantico, ma sono abbastanza chiari per capire l’inganno logico a cui si riferiscono)

1. Il fantoccio
 Rappresentare scorrettamente l’argomentazione dell’avversario, esagerandola o riportandola in modo caricaturale, anche mettendogli in bocca parole che non ha detto, con lo scopo di confutare più facilmente la sua tesi.
Will disse che avremmo dovuto spendere più soldi nella sanità e nell’istruzione, Warren rispose che era sorpreso che Will odiasse così tanto il suo paese da volerlo lasciare senza difesa tagliando le spese militari.
2. Falso rapporto causale
Sostenere che una relazione tra due eventi – reale o percepita – sia necessariamente di tipo causale. Spesso si tende a presentare due cose accadute contemporaneamente o in sequenza  come l’una causa dell’altra, mentre la loro relazione potrebbe essere semplicemente una coincidenza, oppure potrebbero essere provocate dalla stessa causa.
Roger, indicando un grafico, spiega come le temperature si sono alzate negli ultimi secoli, mentre nello stesso tempo il numero dei pirati è diminuito; perciò sono i pirati che raffreddano il mondo e il surriscaldamento globale è una bufala.
3. Falsa conseguenza
Sostenere che se avviene l’ipotesi A, allora di conseguenza accadrà anche l’ipotesi Z: quindi l’ipotesi A non deve verificarsi. Con questo meccanismo non si discute della bontà dell’ipotesi A ma si sposta la conversazione su una sua conseguenza estrema e soprattutto ipotetica.
Colin dice che se consentiamo i matrimoni tra persone dello stesso sesso, allora successivamente permetteremo ai figli di sposare i propri genitori, o la propria automobile o addirittura una scimmia.
4. Attacco alla persona
Obiettare alle argomentazioni di qualcuno senza rispondergli nel merito ma attaccandolo personalmente, con lo scopo di minarne la credibilità.
Dopo che Sally aveva presentato un eloquente e convincente ragionamento in favore di un sistema fiscale più equo, Sam chiese al pubblico se si fidasse di una donna non sposata, che era stata arrestata in passato e che aveva un odore un po’ strano.
5. Invocare l’eccezione “postuma”
Quando la propria tesi viene smentita, cercare di ottenere ragione inventando eccezioni o cambiando il senso della propria tesi iniziale.
Edward sosteneva di essere un sensitivo, ma quando le sue abilità furono messe alla prova scientificamente, magicamente sparirono. Edward spiegò che la gente doveva avere fede nei suoi poteri perché questi funzionassero.
6. Accusa travestita da domanda
Fare una domanda che contiene un’affermazione, in modo che l’intervistato non possa rispondere con un sì o con un no, ma debba contestare la domanda e apparire così sulla difensiva o addirittura colpevole.
Hai smesso di picchiare tua moglie?
7. Il giocatore d’azzardo
Credere che eventi statisticamente indipendenti siano collegati tra di loro, e ricavarne previsioni. Il tutto quando in realtà, come si dice, “il caso non ha memoria”.
Il rosso era uscito sei volte di fila alla roulette, così Greg sapeva che quasi certamente la volta successiva sarebbe uscito il nero.
8. Il carro del vincitore
Cercare di avvalorare una tesi dicendo che è molto popolare.
Shamus, ubriaco, indicò Sean e gli chiese di spiegargli come mai così tante persone credono ai lupi mannari  se questa è solo una vecchia e stupida superstizione.
9. Il falso dilemma
Far credere che esistano solo due alternative e costringere a scegliere tra una di esse, quando in realtà le possibilità sono di più.
Mentre cercava sostegno per il suo progetto di ridurre i diritti dei cittadini, il dittatore chiese alla gente se fosse dalla sua parte o da quella del nemico.
10. Petitio principii
Si tratta di un ragionamento circolare, in cui la conclusione è implicitamente già contenuta nelle premesse.
La giustizia impone che nessuno possa comprare un altro uomo, perché non è giusto che un uomo possa essere messo in vendita.
11. Appello all’autorità
Dire che una cosa è vera perché lo dice un esperto, senza fornire ulteriori argomenti. Nel caso dell’appello a una falsa autorità, invece, si invoca la tesi di un esperto di un ambito che non è quello in questione.
Poiché non era in grado di difendere la sua posizione per cui l’evoluzionismo era una menzogna, Bob disse che conosceva uno scienziato che a sua volta non credeva all’evoluzionismo.
12. Appello alla natura
Sostenere che una cosa naturale deve essere per forza giusta, ideale, necessaria, buona. Anche l’assassinio, per esempio, potrebbe essere inteso come evento “naturale”, ma non per questo lo consideriamo giustificabile.
L’uomo portò molte medicine in città sul suo furgone, tutte naturali, come per esempio un’acqua naturale molto speciale. Diceva che tutti avrebbero dovuto diffidare dalle medicine artificiali, come gli antibiotici.
13. Composizione/Divisione
Ritenere che ciò che è valido per una parte sia valido per il tutto (composizione) o che viceversa ciò che è valido per un intero sia valido anche per le sue componenti (divisione).
Daniel era un bambino precoce e amante della logica. Sapeva che gli atomi sono invisibili, perciò, essendo lui fatto da atomi, credette di essere a sua volta invisibile.
14. Aneddotica
Citare un aneddoto o un esempio isolato della propria esperienza personale per confutare una tesi, soprattutto per indebolire le statistiche.
Jason disse che suo nonno fumava 30 sigarette al giorno ed era vissuto fino a 97 anni, quindi non credeva ai dati sulle morti causate dal fumo.
15. Appello emotivo
Manipolare l’interlocutore facendo leva sui sentimenti, non supportati da validi ragionamenti.
Luke non voleva mangiare il cervello di pecora con fegato tritato e cavoletti di Bruxelles, ma suo padre gli disse di pensare ai bambini poveri che morivano di fame in un paese del terzo mondo e che non avevano cibo, perché non erano fortunati come lui.
16. La fallacia fallace
Sostenere che una proposizione è falsa solo perché supportata da argomentazioni fallaci. In questo caso l’affermazione può anche essere vera, seppur non presentata in modo logicamente valido. Viceversa, una proposizione presentata in modo logicamente valido può essere falsa.
Dopo aver fatto notare ad Amanda che aveva commesso un errore logico nel dire che dovremmo tutti mangiare cibo nutriente perché uno scienziato aveva detto così, Alyse disse che allora al contrario dovremmo mangiare cheeseburger al bacon ogni giorno.
17. Tu quoque Criticare il fatto che l’avversario non sia coerente con quello che dice, ed evitare così di confrontarsi con la validità delle sue affermazioni.
Nicole fece notare che Hannah aveva commesso un errore logico, ma invece di rispondere nel merito, Hannah accusò Nicole di aver commesso a sua volta un errore logico in precedenza.
18. Presunta incredibilità
Rispondere a un argomentazione dicendo che è difficile a credersi, e perciò non può essere vera.
Kirk disegnò un pesce e un essere umano, e con esuberante disprezzo chiese a Richard se veramente secondo lui potremmo essere stupidi al punto da credere che in qualche modo un pesce si sia trasformato fino a diventare un uomo, come voleva la teoria evoluzionista.
19. Onere della prova
Sostenere che l’onere della prova spetti a chi vuole smentire una tesi e non a chi la sostiene. La semplice impossibilità di confutare un’argomentazione non la rende vera. Per dirla come Carl Sagan: “affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie”.
Bertrand sostiene che esiste una teiera in orbita tra la Terra e Marte, e poiché nessuno può provare il contrario, la sua è una proposizione valida.
20. Equivoco o anfibolia
Usare termini dal doppio significato o costruzioni sintattiche ambigue per mascherare la realtà.
Fine della vita è la morte; la felicità è fine della vita; quindi la felicità è la morte.
21. Nessun VERO scozzese
Fare un appello alla purezza quando la propria tesi è stata demolita, con l’obiettivo di creare nuovi criteri.
Angus sosteneva che gli scozzesi non mettono lo zucchero sul porridge. Lachlan rispose che lui era scozzese ma metteva lo zucchero sul suo porridge. Furioso, Angus obiettò che nessun vero scozzese mette lo zucchero sul porridge.
22. Errore genetico
Far credere che l’origine di una certa argomentazione possa togliere validità alla stessa.
L’eugenetica non è accettabile, è una pratica usata dai nazisti!
23. Il tiratore del Texas
Scegliere arbitrariamente una casuale concentrazione di un certo dato per sostenere una tesi, oppure creare un modello che avvalori una congettura. Il nome viene dalla storia del pistolero texano che sparava colpi a caso su un capanno, per poi disegnare attorno ai fori di proiettile un bersaglio.
I produttori della bevanda gassata mostrarono delle ricerche secondo cui, dei cinque paesi dove la bibita era più bevuta, tre erano nella classifica dei primi dieci al mondo per la salute media. Quindi la loro bibita era salutare.
24. Terra di mezzo
Sostenere che un compromesso, o un punto d’intesa tra due estremi, sia la verità. Spesso la verità sta nel mezzo, ma questo non è necessariamente vero: a volte la verità è in uno dei due estremi.
Holly dice che i vaccini causano l’autismo nei bambini, ma la sua amica Caleb, esperta di scienza, obietta che questa tesi è stata smentita ed è infondata. Alice allora propone un compromesso: i vaccini possono causare un po’ di autismo nei bambini.


giovedì 2 gennaio 2014

UN AUGURIO DI LUSSO

Quest'anno mi faccio un augurio di lusso. Lo estendo volentieri agli amici, ma non sono sicuro che incontri il gradimento di tutti: diciamo che è riservato a chi lo condivide.

Mi chiedevo cosa augurarmi per questo 2014,  qualcosa di personale, qualcosa di sanamente egoistico (a parte -si sa- la pace nel mondo, la giustizia e la difesa del pianeta, gratuitamente condivisibili da tutti purché restino auspici generici) e l’ho trovato: è un desiderio lussuoso, ma proverò a permettermelo.

Mi auguro quest’anno di avere, custodire e coltivare un desiderio che non si realizzi.
Voglio desiderare e basta.
Il desiderio è un sentimento delicato, prezioso e precario; costantemente in bilico tra l’appagamento (che lo uccide) e la convinzione della sua inappagabilità (che lo sterilizza).
E’ un  sentimento da coltivare, da difendere, da visitare continuamente. Non importa la cosa desiderata, importa che il suo desiderio sia costante, che consenta l’esercizio dell’immaginazione, che dia spazio alla creatività. Il desiderio è un’area preziosa in assenza della quale tutto si desertifica.

C’è un’età in cui desiderare è facilissimo e spontaneo; in quell’età la difficoltà ad appagare i desideri è vissuta con sofferenza, ignari che invece è proprio quella difficoltà a proteggere i desideri e a tenerli in vita. Gradualmente arriva una stagione in cui i desideri tendono invece a rarefarsi, in parte perché appagati, in parte perché accantonati… un deserto sterile e arido.

E’ il desiderio che dà senso all’attesa e mantiene giovani la mente e il cuore: so cosa aspetto, aspetto che il mio desiderio si realizzi e questa attesa mi tiene vivo.
Ecco dunque cosa mi auguro: avere un desiderio e non riuscire a soddisfarlo.
Lo so che è un lusso, ma quest’anno non bado a spese…