domenica 7 marzo 2010

PENSIERI DI UN'IMMIGRATA SUL LAVORO

Mi chiamo Carmen Cruz Zalayeta, ho 22 anni, vengo dall’Ecuador e vivo a Roma da due anni. 
Sono venuta in Italia per lavorare, guadagnare, cercare di spendere il meno possibile e poter mandare ogni mese qualcosa a casa. 
Sono venuta a Roma perché una mia amica era qui da prima, fa le pulizie e cucina presso una famiglia romana e aveva saputo che un’altra signora aveva bisogno di una ragazza.
Purtroppo quando sono arrivata la signora ne aveva già trovata un’altra e ho dovuto cercare altrove.
Qualcosa trovo, ma sempre per brevi periodi; per fortuna dormo a casa della mia amica, altrimenti non riuscirei a mandare nulla a mia madre.
Il primo invio di denaro che sono riuscita a fare è stato di 80 euro. Ero emozionata quando sono entrata nell’ufficio della Western Union: immaginavo mia madre alla Western Union di Quito che ritirava l’equivalente in dollari americani. Sarebbe stata orgogliosa di me e ne avrebbe parlato nel barrio ai parenti. “E’ brava Carmencita –avrebbero detto- lavora e aiuta la famiglia, non come certe ragazze che partono e non mandano mai niente a casa”.
Il lavoro lo trovo soprattutto grazie alle amiche che passano la voce, poi vado a parlare con le signore e mi chiedono le solite cose: se ho esperienza, se capisco l’italiano, dove ho lavorato prima;poi tutte dicono sempre che per loro è molto importante la pulizia, l’ordine e la puntualità e mi spiegano in quali giorni e in quale orario dovrò lavorare.
Quasi sempre a questo punto del discorso fanno una pausa e, come se fosse un aspetto secondario e trascurabile, aspettano che sia io a chiedere quanto sarò pagata.
Questa faccenda del pagamento in Italia è davvero una cosa molto complicata e molto difficile da comprendere per una come me che non conosce bene le regole.
Non si riesce mai bene a capire quanto sarò pagata.
Sembra che mettersi d’accordo semplicemente su quanto mi daranno per ogni ora o giorno di lavoro non sia possibile. Quando ci si mette d’accordo così lo chiamano lavoro “nero”.
Molti lo fanno, ma non riesco a capire se è una cosa buona o no.
A parte che per me il lavoro da fare -nero o bianco- è sempre lo stesso, alcune amiche dicono che “nero” è meglio perché pagano un po’ di più e anche molte signore dicono che “nero” è meglio perché è tutto più semplice e non serve fare troppe “carte”. Aggiungono però che non bisogna dirlo in giro perché non si potrebbe fare, ma non mi è molto chiaro a chi non si deve dire, a chi interessa se io sono in “nero” e cosa succederebbe se si venisse a sapere.
L’unica cosa che ho capito è che se il lavoro è “nero” non mi rinnoveranno il permesso di soggiorno ed è per questo motivo che ho cominciato a chiedere di fare le “carte”.
La signora mi ha detto che si può fare, ma che sarò pagata di meno perché una parte dei miei soldi servirà per pagare i “contributi” e le “tasse”. Sembra che con questi “contributi” quando sarò vecchia mi daranno una pensione. Spero proprio mi trovino nel barrio di Quito dove tornerò, altrimenti per me saranno sprecati, nel senso che qualcuno li avrà pure presi quei soldi che io ho guadagnato, ma non torneranno a me neppure fra tanti anni in forma di pensione. Chissà cosa ne faranno?
Ho chiesto anche cosa faranno con i miei soldi delle tasse: la signora ha detto che se li prende lo stato per poter dare alle persone (anche a noi immigrati) i servizi pubblici: cioè per pagare lo stipendio ai maestri, ai dottori, ai politici, ai poliziotti.
Mi pare una buona cosa. Adesso che pago le tasse spero che i poliziotti siano più gentili con me e che i politici facciano leggi che mi aiutino (in fondo anch’io pago una parte del loro stipendio!).
Ho saputo che la ragazza che viene a fare la babysitter la sera (quando la signora esce) e il ragazzo che sistema il giardino sono pagati in “nero”, ma loro non hanno problemi perché sono italiani e non gli serve il permesso di soggiorno.