domenica 21 novembre 2010

MASSIMO COMUN DIVISORE o minimo comune multiplo?

Come tutti (davvero tutti?) ricordano dalle medie, il Massimo Comune Divisore (M.C.D.) di due numeri interi è il  più grande per il quale possono entrambi essere divisi mentre il minimo comune multiplo (mcm) di due interi a e b è il più piccolo intero che è multiplo sia di a che di b.
Non so a voi, ma a me è sempre stato più simpatico il minimo comune multiplo.
Il Massimo Comune Divisore  si presenta con l’arroganza delle sue maiuscole, sembra promettere grandi cose (il Massimo…) e poi alla fine si rivela un numero piccolo, certe volte ridicolmente più piccolo dei numeri interi di cui è il solenne “Comune Divisore”.
Al contrario il minimo comune multiplo si presenta come “minimo” e invece è sempre grande, comunque più grande delle parti di cui è, appunto, multiplo.
Il Massimo Comune Divisore  indica qualcosa che è già dentro le parti, non prospetta un elemento nuovo, si limita a evidenziare la piccola quantità che le parti hanno “già” in comune, il minimo comune multiplo invece indica qualcosa che non è dentro le parti, una prospettiva che le accomuna ma che è avanti e più grande delle parti stesse.
Insomma, in breve, il MCD mi appare riduttivo, narcisista e rinunciatario, mentre il mcm mi appare ottimista, positivo ed entusiasta.
Si, lo so, sono solo numeri: i sentimenti e gli atteggiamenti non fanno parte del loro pianeta… ma fanno parte del nostro e a me sembra che MCD e mcm rappresentino bene due modi diversi -spesso opposti- di affrontare la vita, i problemi, la politica.
I tifosi del MCD sono di solito minimalisti, lenti, conservatori, poco inclini al cambiamento e quando devono decidere tra due diverse prospettive cercano soluzioni che stanno sempre “dentro” i confini degli scenari di partenza.
I tifosi del mcm sono di solito creativi, veloci, disposti al cambiamento e ipotizzano soluzioni oltre i confini degli scenari di partenza.
Ad esempio il discorso di Robert Schuman a Parigi nel 1950 (che viene considerato l’atto di nascita morale dell’Unione Europea) è un discorso da mcm: lo scenario di partenza era quello della rivalità storica tra Francia e Germania per la produzione di carbone ed acciaio, la soluzione ipotizzata è la messa in comune ed il controllo delle riserve europee di tali materie prime e l’avvio del processo di creazione delle Comunità Europee. Una soluzione che non era “dentro” il problema, una soluzione che ridefinisce il significato stesso del problema inserendolo in uno scenario più grande e significativo.
Un altro esempio di atteggiamento mcm è quello che, nei primi anni ’70, fu chiamato il “calcio totale”. Lo scenario di partenza era quello trovare la disposizione tattica più opportuna di ciascun calciatore in campo, la soluzione attuata dal calciatore olandese Johan Cruijff andò oltre i confini del problema: benché venisse schierato come centravanti, si muoveva in ogni gara a tutto campo a seconda dello sviluppo delle singole azioni, cercando sempre la posizione dove avrebbe potuto essere più pericoloso. I compagni si adattavano ai suoi movimenti, scambiandosi di posizione in maniera regolare in modo che i ruoli fossero comunque tutti coperti, anche se non sempre dalla stessa persona. E’ solo un esempio, quello che ci interessa è la capacità di immaginare soluzioni che siano più grandi del problema che vogliono risolvere, il famoso “colpo d’ala” che ci permetta di vedere le cose dall’alto in una nuova prospettiva.
A me sembra che la politica (tutta, non solo una parte) stia attualmente attraversando una drammatica fase da Massimo Comune Divisore, stia cioè ostinandosi a cercare le soluzioni ai problemi dentro i problemi stessi: si parla di politiche dell’immigrazione come se la questione fosse un fenomeno stagionale tipo mucca pazza o influenza aviaria, si parla di riforma della giustizia come se i diritti costituzionali potessero variare ad ogni legislatura in funzione del premier di turno e dei suoi problemi giudiziari, si parla di economia come se il problema fosse solo far quadrare la finanziaria accontentando un po’ tutti.
Mi manca il “colpo d’ala”, mi manca l’atteggiamento del minimo comune multiplo, mi manca la capacità di disegnare uno scenario in cui il problema di oggi occupi solo una parte e la soluzione sia a misura di domani.
Insomma mi va bene anche minimo, purché sia comune e, soprattutto, multiplo.

lunedì 16 agosto 2010

E ADESSO AL RE CHI GLIELO DICE?

Il "Vasa"Il pomeriggio del 10 agosto 1628 a Stoccolma c'è il sole.
E' domenica e l'atmosfera delle grandi occasioni serpeggia in ogni vicolo di GamlaStan: oggi pomeriggio alle quattro, dopo due anni di lavoro serrato, la nuova ammiraglia della marina svedese scenderà in acqua ! E' il favoloso "Vasa", l'orgoglio del re Gustavo Adolfo, ma anche di tutti i carpentieri, i fabbri, i falegnami, gli architetti e i manovali che in questi due anni hanno lavorato notte e giorno a realizzare questa incredibile e bellissima macchina da guerra.
Sessantanove metri di lunghezza e quasi quarantanove di altezza ! I polacchi e re Sigismondo fuggiranno solo a vederla! Ce la invidieranno anche i danesi! E poi i sessantaquattro cannoni, i tre possenti alberi, le dieci vele quadre, le sculture...  un capolavoro!
Ma c'è qualcuno che non riesce a stare tranquillo.
L'ammiraglio ha assistito la scorsa settimana alle prove di stabilità: trenta marinai si sono spostati di corsa alternativamente da destra a sinistra e da sinistra a destra e la nave ha oscillato paurosamente. Il collaudo è stato interrotto. La linea di galleggiamento è bassa dopo che è stata aumentata la zavorra, ma è stato necessario per cercare di stabilizzare una nave così stretta.
L'aveva detto l'architetto, è troppo lunga e alta rispetto alla chiglia... ma il re ha insistito... "la voglio più lunga e più alta, deve essere molto più grande delle navi dei polacchi!"... adesso la nave è pronta, è come il re l'ha voluta... ma ce la farà a tenere il mare ?
E poi, chi glielo dice adesso al re ?
E non solo al re. E ai marinai? Ai nobili? Al popolo? Ai soldati impegnati a Lubecca contro i polacchi? Come si fa a dire, dopo due anni di attesa e di lavoro: "forse abbiamo sbagliato i calcoli..."?  Non è possibile dirlo... meglio non dirlo.
Basta dubbi! Le carte sono state firmate... oggi alle quattro la nave scende in acqua, tra gli applausi del popolo e l'attesa dei trecento soldati che saliranno a bordo per fare rotta verso Lubecca. Viva la Svezia!
Molti, probabilmente, sanno già come andò a finire quel pomeriggio di agosto. Il favoloso Vasa, tra l'entusiasmo della folla, fu trainato fuori del porto e navigò per poco più di cinque minuti: alla seconda folata di vento si piegò su un fianco, l'acqua entrò dai portelli della prima fila di cannoni e la nave colò a picco sotto gli occhi di tutti.
E adesso al re chi glielo dice ?
La storia del Vasa (che -per la cronaca- è stato recuperato 333 anni dopo il naufragio, certosinamente restaurato ed è oggi esposto al Vasamuseet di Stoccolma) mi ha fatto venire in mente a quante volte, soprattutto in politica, la vicenda si è ripetuta e continua a ripetersi.
Quante volte si sono costruiti teoremi, creati (o divisi) schieramenti, affrontate competizioni elettorali pur sapendo che i calcoli non autorizzavano nessun ottimismo ?
Si, lo so, la politica non è una scienza esatta e non si può calcolare come si può fare per il rapporto tra la larghezza e l'altezza di una nave... ma la ragione ha le sue regole, che non sempre coincidono con la rabbia dei delusi,  gli applausi delle folle e le voglie delle primedonne.
Sono regole che derivano dal buon senso e dalla prudenza, che crescono nei ragionamenti condivisi e nei "collaudi" da effettuare, che prendono corpo in progetti pazienti che non si cambiano solo perché qualcuno vuole la nave più grande e spettacolare... ce la faremo a far prevalere la ragione o ci lanceremo ancora in acqua con entusiasmo e incoscienza gridando "Viva la Svezia"?

giovedì 1 aprile 2010

PENSIERINI EDIFICANTI E IPNOSI DI MASSA

I faccioni dei candidati per le strade sono -come sempre- invecchiati in una notte. 
Molti, il giorno dopo, sono stati coperti dal rassicurante messaggio che già aveva illuminato piazza San Giovanni facendo da sfondo ad una laica liturgia: “L'amore vince sempre sull'odio e sull'invidia”. 
- Un mantra pacifista ? - Un bigliettino dei baci Perugina? -Un augurio pasquale ?
Piuttosto un pensierino edificante, a metà tra il proverbio della nonna e l’ottimismo edulcorato di certi preti. Sapientemente abbinato a un pulsante “Cuore azzurro” (nell’anno dei mondiali di calcio!) produce un effetto sorprendente: il pensierino edificante diventa una verità esistenziale, una certezza etica, un programma politico, la base di una nuova religione (e anche un titolo di Mondadori in vendita a 15 euro).
Impossibile? Uno scherzo stupido ?
Evidentemente non la pensa così più della metà degli elettori che hanno ancora avuto voglia di votare… E’ incredibile, ma è così.
(Forse però è meglio prenderne atto e ripartire da qui che continuare a dire che è incredibile).
“L'amore vince sempre sull'odio e sull'invidia”. Mi disturba e mi inquieta l’uso spudorato e strumentale dei sentimenti. Questo modo volgare di evocarli, appropriarsene e utilizzarli -a seconda dei casi- come clava verso i “nemici” politici o come sottotitolo dei risultati elettorali, mi sembra una sorta di profanazione del linguaggio.
L’amore, l’odio, l’invidia, così come il dolore, la gioia, la pietà, sono parole che non fanno parte del lessico politico e tanto meno possono essere “marchiate” come una proprietà privata.
Se perdiamo anche le parole cosa ci resterà?
Come potremo narrare noi stessi e i nostri sentimenti se qualcuno ci ha rubato le parole, le ha sporcate, arruolate, svuotate, vendute ?
Come potremo smascherare la falsità e l’inganno se qualcuno ha disinnescato la forza delle parole e minato la loro credibilità?
Non è nuovo il trucco di dividere il mondo in due, tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra, appropriarsi della parte migliore e poi dire che occorre fare “una scelta di campo” … quello che è nuovo è che “abbocchino” all’amo una quantità impressionante di tonni lobotomizzati… come se un’ipnosi collettiva impedisca alle sinapsi di attivarsi… ma c’è un modo per uscire dall’ipnosi senza il consenso dell’ipnotizzatore?

domenica 7 marzo 2010

PENSIERI DI UN'IMMIGRATA SUL LAVORO

Mi chiamo Carmen Cruz Zalayeta, ho 22 anni, vengo dall’Ecuador e vivo a Roma da due anni. 
Sono venuta in Italia per lavorare, guadagnare, cercare di spendere il meno possibile e poter mandare ogni mese qualcosa a casa. 
Sono venuta a Roma perché una mia amica era qui da prima, fa le pulizie e cucina presso una famiglia romana e aveva saputo che un’altra signora aveva bisogno di una ragazza.
Purtroppo quando sono arrivata la signora ne aveva già trovata un’altra e ho dovuto cercare altrove.
Qualcosa trovo, ma sempre per brevi periodi; per fortuna dormo a casa della mia amica, altrimenti non riuscirei a mandare nulla a mia madre.
Il primo invio di denaro che sono riuscita a fare è stato di 80 euro. Ero emozionata quando sono entrata nell’ufficio della Western Union: immaginavo mia madre alla Western Union di Quito che ritirava l’equivalente in dollari americani. Sarebbe stata orgogliosa di me e ne avrebbe parlato nel barrio ai parenti. “E’ brava Carmencita –avrebbero detto- lavora e aiuta la famiglia, non come certe ragazze che partono e non mandano mai niente a casa”.
Il lavoro lo trovo soprattutto grazie alle amiche che passano la voce, poi vado a parlare con le signore e mi chiedono le solite cose: se ho esperienza, se capisco l’italiano, dove ho lavorato prima;poi tutte dicono sempre che per loro è molto importante la pulizia, l’ordine e la puntualità e mi spiegano in quali giorni e in quale orario dovrò lavorare.
Quasi sempre a questo punto del discorso fanno una pausa e, come se fosse un aspetto secondario e trascurabile, aspettano che sia io a chiedere quanto sarò pagata.
Questa faccenda del pagamento in Italia è davvero una cosa molto complicata e molto difficile da comprendere per una come me che non conosce bene le regole.
Non si riesce mai bene a capire quanto sarò pagata.
Sembra che mettersi d’accordo semplicemente su quanto mi daranno per ogni ora o giorno di lavoro non sia possibile. Quando ci si mette d’accordo così lo chiamano lavoro “nero”.
Molti lo fanno, ma non riesco a capire se è una cosa buona o no.
A parte che per me il lavoro da fare -nero o bianco- è sempre lo stesso, alcune amiche dicono che “nero” è meglio perché pagano un po’ di più e anche molte signore dicono che “nero” è meglio perché è tutto più semplice e non serve fare troppe “carte”. Aggiungono però che non bisogna dirlo in giro perché non si potrebbe fare, ma non mi è molto chiaro a chi non si deve dire, a chi interessa se io sono in “nero” e cosa succederebbe se si venisse a sapere.
L’unica cosa che ho capito è che se il lavoro è “nero” non mi rinnoveranno il permesso di soggiorno ed è per questo motivo che ho cominciato a chiedere di fare le “carte”.
La signora mi ha detto che si può fare, ma che sarò pagata di meno perché una parte dei miei soldi servirà per pagare i “contributi” e le “tasse”. Sembra che con questi “contributi” quando sarò vecchia mi daranno una pensione. Spero proprio mi trovino nel barrio di Quito dove tornerò, altrimenti per me saranno sprecati, nel senso che qualcuno li avrà pure presi quei soldi che io ho guadagnato, ma non torneranno a me neppure fra tanti anni in forma di pensione. Chissà cosa ne faranno?
Ho chiesto anche cosa faranno con i miei soldi delle tasse: la signora ha detto che se li prende lo stato per poter dare alle persone (anche a noi immigrati) i servizi pubblici: cioè per pagare lo stipendio ai maestri, ai dottori, ai politici, ai poliziotti.
Mi pare una buona cosa. Adesso che pago le tasse spero che i poliziotti siano più gentili con me e che i politici facciano leggi che mi aiutino (in fondo anch’io pago una parte del loro stipendio!).
Ho saputo che la ragazza che viene a fare la babysitter la sera (quando la signora esce) e il ragazzo che sistema il giardino sono pagati in “nero”, ma loro non hanno problemi perché sono italiani e non gli serve il permesso di soggiorno. 

domenica 21 febbraio 2010

PENSIERI DI UN IMMIGRATO SULL'INTEGRAZIONE

“Mi chiamo Uddin Asraf, ho 27 anni, vengo dal Bangladesh e vivo a Roma da quasi due anni. 
Ho lavorato prevalentemente come lavapiatti in diversi ristoranti della città e, oltre ai miei connazionali, ho anche alcuni amici italiani con cui giochiamo qualche volta a calcetto e mangiamo insieme il gelato d’estate. 
Sono per carattere molto curioso e cerco di capire, per quanto possibile, le usanze, le regole e la mentalità degli italiani. Vi assicuro che non è facile: gli italiani non sono tutti uguali, si comportano in modi molto diversi e ognuno è convinto che il suo sia il modo giusto! Se uno straniero vuole capire come comportarsi guardando come si comportano gli italiani, spesso non riesce a capirlo. Per esempio quando si sale sull’autobus: qui non è come a Londra, quasi sempre sale prima chi è più veloce o più giovane, non importa l’ordine di arrivo alla fermata, se ti fermi e aspetti che salgano gli altri ti dicono “svegliati!”, se ti affretti e passi avanti ti guardano male come se fossi un prepotente… non è facile capire come si deve fare!
Cerco soprattutto di capire le parole che riguardano gli stranieri e anche questa cosa non è facile. Spesso usano parole diverse per dire la stessa cosa e parole uguali per dire cose diverse. Per esempio ho capito che la parola “immigrato” non è uguale alla parola “straniero”. Se uno è americano o australiano è “straniero”, se invece è del Perù o del Bangladesh è “immigrato” o “extracomunitario”. Eppure anche l’americano e l’australiano sono “extracomunitari”, ma nessuno li chiama così. Non credo che dipenda solo dall’aspetto fisico (certo noi del Bangladesh siamo più scuri, ma anche quelli dell’Albania, che sono più chiari, li chiamano extracomunitari), penso piuttosto che dipenda dall’avere più o meno soldi… comunque una delle prime cose che ho imparato per stare tranquillo è non fare mai questioni, non creare mai problemi e fare poche domande, (ho l’impressione che gli italiani quando non sanno che rispondere si arrabbiano), quindi in qualunque modo mi chiamano per me va bene.
Cerco lavoro, come tutti, anche perché i lavori che trovo non sono belli. Un lavoro bello è un lavoro che non dura poco, che non ti possono mandare via senza motivo, che ti pagano bene. I lavori che trovo io sono tutto il contrario: durano poco, ti possono mandare via in qualunque momento e mi pagano 5 o 6 euro l’ora anche se lavoro di notte. Ecco perché cerco lavoro: perché spero sempre di trovarne uno migliore.
Ma c’è un’altra parola che non capisco: integrazione. Negli ultimi tempi tutti dicono che bisogna favorire l’integrazione degli immigrati, sembra sia una cosa buona, ma non sono davvero riuscito a capire cosa significa.
Che vogliono dire gli italiani quando dicono che io devo essere “integrato” ?
All’inizio credevo significasse che dovevo avere un lavoro, un permesso, una casa… (infatti ero molto contento!) poi ho capito che non intendevano questo, ma solo che dovevo sembrare “meno straniero”. Ma come ? Non lo capisco.
Forse parlare meglio l’italiano? Capire le barzellette italiane? Sapere chi era Garibaldi? Capire qualcosa della politica italiana? (Parlano sempre di “destra” e “sinistra” ma è impossibile per me capire cosa vogliono dire con queste parole…). Mangiare più pasta e meno riso? Non mettere il peperoncino nel cibo? Forse se riuscirò a fare tutte queste cose mi considereranno più “integrato” e mi daranno un lavoro diverso, più sicuro, più pagato? Non lo so, forse vogliono solo che io diventi il più possibile simile a un italiano e chissà, forse –senza accorgermene- anche la mia pelle diventerà più chiara e poi mi piacerà la musica di Sanremo. Allora sarò certamente integrato. Ma sarò ancora Uddin?”