lunedì 19 dicembre 2011

CRONACHE DAL LAMENTOSTAN

Nel paese tutti si lamentavano dei politici e della politica.
I partiti litigavano in continuazione, facevano coalizioni elettorali per rimetterle in discussione subito dopo le elezioni e ogni decisione naufragava nel mare dei “però” e dei “ma anche”.
Il governo era in difficoltà: “Frammentato -dicevano tutti-questo non è un governo, è un pollaio dove ogni gallo vuole cantare più forte dell’altro. Il leader è debole. Non durerà”.
E infatti non durò.
Nel paese tutti si lamentavano dei politici e della politica.
Tornarono a votare e questa volta il governo era forte, anzi fortissimo, la maggioranza in parlamento schiacciante, il leader indiscusso. Le camere gli votavano qualunque legge.
Eppure non funzionò: il governo era così forte che pensava di potersi permettere tutto, anche di infischiarsene dei debiti, degli altri paesi, della coerenza, della credibilità.
E si ritrovò in difficoltà: “E’ esagerato -dicevano tutti-questo non è un governo, è una processione medievale di cortigiani e cortigiane a rimorchio del sovrano. Il leader è solo e non è più credibile. Non durerà”.
E infatti non durò.
Nel paese tutti si lamentavano dei politici e della politica.
Nel frattempo però la situazione economica era così compromessa che non c’era neppure più il tempo per tornare a votare e si decise di affidare il governo a persone che -per la loro competenza-  potessero entrare nel merito dei problemi e trovare soluzioni con maggiore autonomia dei cortigiani e minori timori di chi prima o poi avrebbe dovuto farsi votare.
Ma la gente riprese a lamentarsi: “Non sono abbastanza politici… troppo tecnici”; “Sono troppo politici, altro che tecnici!”; “Sono troppo freddi e distaccati”; “Troppo emotivi, piangono in diretta tv”; “Qualcuno ha le orecchie a sventola; “Marionette di occulti burattinai…”. Questo non è un governo, è una squadra di burocrati. Non durerà.
Il paese in fondo voleva solo politici competenti, seri, efficienti, che facessero quadrare il bilancio, che risanassero il debito e rimettessero in moto l’economia, la competitività e l’occupazione, realizzando rapidamente riforme strutturali della giustizia, della sanità, delle pensioni, della scuola e della pubblica amministrazione. Il tutto impostando una perfetta politica fiscale (così perfetta che sembri equa a tutti allo stesso tempo), ottenendo risultati in tempi brevi. Ovviamente con creatività, simpatia e leggerezza. E’ forse chiedere troppo?
Si. E’ chiedere troppo. Ma in Lamentostan non lo capiscono.
Se non è così non è un buon governo. Non durerà”.

domenica 11 dicembre 2011

IL MATRIMONIO AL TEMPO DELLE COLLABORAZIONI OCCASIONALI

La settimana scorsa il figlio di un mio amico mi ha comunicato che tra qualche mese si sposerà. Mi sembra davvero una buona notizia.
Nei giorni successivi più di un amico, commentando, ha trovato naturale chiedermi se (dunque) i due avevano trovato un lavoro, collegando evidentemente la decisione presa a quella che considerava la condizione che l’aveva resa possibile.
Nulla di strano. La mia generazione e quella dei miei genitori è cresciuta considerando il vivere insieme, il matrimonio e l’autonomia economica tre passaggi strettamente connessi, ognuno condizione dell’altro. Non si viveva insieme se non si era sposati, ma non ci si sposava se non c’era autonomia economica, dunque trovare un lavoro diventava il passaggio che dava il via libera agli altri due. Ma non è stato sempre così: all’epoca dei miei nonni e bisnonni la precarietà cronica della condizione rurale non consentiva di identificare con chiarezza il passaggio all’autonomia economica del singolo nucleo, che restava spesso collegato –per il reddito e non solo- alla famiglia allargata di origine, così che la scelta di sposarsi risultava meno condizionata, sganciata dalle variabili studio-casa-lavoro poteva essere presa con maggiore libertà.
Ma le cose cambiano e così come il migrare dalle campagne alle città, la scolarizzazione e il superamento della famiglia allargata hanno generato il modello della famiglia mononucleare fondata sulla autonoma produzione di reddito, oggi la difficoltà a realizzare quest’ultima condizione modifica di fatto la connessione di necessità tra autonomia economica e matrimonio.
Delle due l’una: o non si considera più il raggiungimento dell’autonomia economica la condizione indispensabile per sposarsi, o -come sta avvenendo sempre più spesso- non ci si sposa più. Non si tratta di una scelta ideologica, ma di una mutata condizione “ambientale”.
Ma allora -in questo mutato quadro- che significa sposarsi?
Penso significhi, (come è sempre stato) decidere di vivere insieme e affrontare insieme le vicende della vita, solo che oggi tra queste vicende rientra anche la ricerca del (primo) lavoro e di una autonomia economica, mentre in passato questa precedeva la decisione di sposarsi e ne costituiva la condizione.
Ma non tutti i mali vengono per nuocere: forse svincolando il matrimonio dalla stabilità economica lo si “sgancia” da una variabile imprevedibile e pericolosa, costringendo chi prende questa decisione a trovarne le ragioni esclusivamente nella propria libertà e responsabilità.
Va da sé che non avere un’autonomia economica stabile comporta “arrangiarsi” con poche risorse e dipendere per molte cose da altri, ma anche questa precarietà fa parte delle vicende della vita! Non c’è oggettivamente molta differenza fra essere precari ciascuno a casa sua ed essere precari da sposati. La vera differenza è tra considerare questa precarietà come il problema di ciascuno o affrontarlo come un problema “di coppia”, che è appunto quello che ci si aspetta da due persone che hanno deciso di sposarsi.
Ecco perché la decisione di sposarsi mi sembra comunque una gran bella notizia. Anche al tempo delle collaborazioni occasionali.