sabato 19 novembre 2016

NON SIAMO ORIGINALI QUANTO CREDIAMO

Jules Isaac scrisse -nel 1942- “Gli Oligarchi”, in cui racconta come nell’Atene della fine del quinto secolo a.C. gli aristocratici presero il potere e fecero a pezzi la democrazia. Dal 435 a.C. al 403 a.C., durante la guerra tra Sparta e Atene, gran parte degli intellettuali criticavano incessantemente i meccanismi della democrazia e comici come Aristofane, “preoccupati più di divertire che di riformare”, mettevano in ridicolo Socrate, indebolendolo agli occhi del popolo.
Gl
i oligarchi favorirono la guerra che mise a dura prova la vita, le risorse, il discernimento degli ateniesi.
I tribunali divennero un’arma per delegittimare gli avversari politici e non si arrivava più a distinguere gli innocenti dai colpevoli. Spossato dalla guerra il popolo ateniese si affidò agli oligarchi, nella speranza che si creasse un’epoca migliore, almeno pacifica, ordinata, senza lo spettro della fame. Ma al posto della rigenerazione si ebbe il terrore, al posto della giustizia l’arbitrio e al posto della pace una guerra civile e l’occupazione militare straniera. Gli immigrati, i meteci, vennero imprigionati, cacciati, uccisi. Scrisse Platone: “si giunse a rimpiangere in poco tempo l’antico ordine di cose come un’età dell’oro”.


Non mi azzardo a disegnare parallelismi fantasiosi, ma a me sembra che gli ingredienti della storia siano sempre gli stessi, un po’ come quelle interminabili serie televisive in cui gli episodi si assomigliano tutti, si ripetono i medesimi schemi e ogni personaggio interpreta solo se stesso.
Passano i secoli e finiamo per ripeterci stucchevolmente, convinti ogni volta di essere originali e sicuri che il finale sarà diverso.  O qualcuno si inventa qualcosa di veramente nuovo o almeno smettiamola di crederci geniali e cerchiamo di replicare le puntate migliori della fiction.

sabato 8 ottobre 2016

HOMO HOMINI LUPUS

Thomas Hobbes sosteneva che la natura umana è fondamentalmente egoista e risponde solo agli istinti di sopravvivenza e di sopraffazione (il famoso “homo homini lupus”) e che quando gli uomini si legano tra loro in amicizie o società decidendo di regolare i loro rapporti con le leggi, non lo fanno per amore ma solo per paura reciproca e per convenienza.

Deve essere stato per questo che il 28 luglio 1951, a Ginevra, i membri delle Nazioni Unite hanno deciso che se qualcuno è cittadino di uno Stato in cui è “perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche” ha il diritto di chiedere accoglienza e protezione ad un altro Stato.
Non c’è bisogno di scomodare la solidarietà e forse neppure di giustizia, possono bastare la paura e la convenienza: oggi tocca a te, domani può toccare a me. Chi può sapere chi si troverà a dover chiedere accoglienza e protezione in futuro? Chi può essere sicuro di non ritrovarsi fra qualche tempo a parti invertite?


Ma l’avidità e l’interesse politico passano sopra a tutto e la ricca ed evoluta Europa arriva a barattare aiuti economici e strategici con le vite di coloro che la Convenzione di Ginevra imporrebbe di tutelare. Prima il criminale accordo con Erdogan dello scorso marzo ed ora -ancor più criminale- quello con il governo dell’Afghanistan che prevede per migliaia di persone il rimpatrio forzato in un paese in guerra, in cui è dimostrata una persecuzione su base etnica.
Se non siamo più in grado di rispettare neppure le norme che ci siamo dati per convenienza reciproca, a quale criterio potrà mai ispirarsi la convivenza civile?


Lupi contro lupi: vince sempre il più forte, ma non è detto che il più forte sia sempre lo stesso.


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http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/517500/Accordo-Afganistan-Ue-sui-rimpatri-Un-pericoloso-precedente



mercoledì 14 settembre 2016

NON DIPENDE DALLE CARTE











Ognuno si sceglie i suoi miti. Uno dei miei è Alex Zanardi.

Alex non è uno che ce l'ha fatta: è uno che ce l'aveva fatta, ha perso tutto e ha saputo ricominciare -senza compiangersi- fino a tornare in vetta. Sempre con il sorriso imbattibile di chi ha capito che la partita non dipende dalle carte che hai, ma dal sapersele giocare senza frignare.


Domani sono quindici anni esatti dall'incidente del Lausitzring: la medaglia d'oro di oggi è la prova che si può sempre essere più forti di quello che ci succede.


Alex è il paradigma della vita come andrebbe vissuta.




giovedì 11 agosto 2016

RECIPROCAMENTE


Siamo proprio sicuri che quello che a noi sembra bello, buono, elegante, giusto, gustoso, ammirevole e profumato lo sia o debba esserlo per tutti?
Siamo proprio sicuri che i nostri gusti, le nostre convinzioni, le nostre forme espressive e le nostre priorità siano quanto di più avanzato e illuminato la storia dell’umanità abbia mai concepito e prodotto?
Se qualcuno è proprio sicuro che le cose stiano così, faccia pure e giudichi pure il mondo dal suo punto di vista, ma tenga conto che la stessa identica e simmetrica certezza sarà presente anche tra coloro che hanno gusti, convinzioni, forme espressive e priorità diverse dalle sue. Anche tra chi esprime culture diverse ci sarà chi ritiene il suo punto di vista il più avanzato e illuminato che la storia dell’umanità abbia mai concepito e prodotto.
Inoltre le culture diverse non sono certo solo due e i “pacchetti” culturali cambiano continuamente, si ibridano nel tempo, si condizionano reciprocamente molto più di quanto non si creda. Le culture sono fluide e definirne i confini con nettezza è come voler tagliare la minestra col coltello.
Se c’è un principio di cui sono sicuro è quello della reciprocità: se tu sembri strano a me, probabilmente io sembro strano a te e se ho il diritto di non essere obbligato a cambiare la mia convinzione e a poterla esprimere senza essere giudicato, discriminato o irriso, il prezzo di questo diritto sarà necessariamente quello di riconoscerlo simmetricamente all’altro senza giudicarlo, discriminarlo o irriderlo.
Che tra un piatto di spaghetti all’amatriciana e uno spiedino di larve di palma io preferisca il primo, ma arrivi a capire che c’è chi possa preferire il secondo non è poi così difficile: finché si tratta di gusti e convinzioni relative all’alimentazione, all’abbigliamento o all’arredamento non ci costa troppo accettare il principio della reciprocità del diritto (purché nessuno mi obblighi a mangiare larve, a indossare un turbante o a dormire su una stuoia), ma quando il principio della reciprocità del diritto tocca questioni più delicate e complesse come l’autodeterminazione del singolo, i rapporti familiari e sociali, il sesso, la percezione del corpo, il rapporto con il denaro o la privacy dei sentimenti non ci accontentiamo più di avere il diritto di pensarla come la pensiamo: ci sovviene la “certezza” di essere i più avanzati e illuminati che la storia dell’umanità abbia mai concepito e prodotto e pretendiamo che gli altri lo riconoscano (dimenticando ovviamente che anche gli “altri” stanno facendo esattamente lo stesso ragionamento…).
Detto questo, mi fa molto piacere vedere che una ragazza tedesca e una ragazza egiziana provenienti da contesti e culture diverse, giochino in Brasile la stessa partita, nella stessa olimpiade, con le stesse regole: mi fa sperare che -malgrado tutte le differenze- il minimo comune multiplo tra le culture sia comunque un ricco patrimonio da condividere e da godere insieme.

P.S. - Prima che qualcuno lo dica: no, questo non è il trionfo della relatività, nessuno mi chiede di credere “relativamente” alle cose in cui credo, o di essere solo “relativamente” convinto delle mie convinzioni. Ho il diritto di esserne convinto in modo “assoluto” e anche il diritto di comportarmi conseguentemente (ovviamente nei limiti delle leggi del posto in cui vivo, nell’epoca in cui vivo). Quello che non posso pretendere è che chi non la pensa come me sia necessariamente o stupido o in mala fede (anche perché lui avrebbe il diritto di pensarlo di me).



venerdì 1 luglio 2016

GENITORI E FIGLI. My two cents.




Penso che una delle cose più importanti per “essere” e “fare” bene la mamma o il papà sia distinguere la funzione dalla relazione.
La funzione di genitore varia, dipende dalle circostanze e dalle esigenze specifiche di ognuno, è più intensa nei primi anni di vita, si modifica con il passare degli anni, successivamente diminuisce e infine -gradualmente- termina.
Anche la relazione tra genitore e figlio si modifica nel tempo, conosce momenti più e meno intensi, forme diverse per esprimersi, ma -se sana e “fluida”- non termina mai, diventa una relazione tra adulti arricchita dall’affetto reciproco, unico nel suo genere, che di solito la caratterizza.
Per un certo numero di anni le due componenti (funzione genitoriale e relazione d’affetto) convivono, si intrecciano, si sovrappongono, si alimentano e a volte si intralciano a vicenda. Mano a mano che la funzione inizia diminuire, diventa sempre più importante riuscire tenere distinte le due componenti: se restano intrecciate l’una uccide l’altra.
Da parte del genitore, l’incapacità di smettere di esercitare una funzione non più necessaria o richiesta rivela la paura che venendo meno la funzione verrà meno anche la relazione; è vero invece piuttosto il contrario: sarà proprio l’“eccesso” di funzione genitoriale a danneggiare la relazione d’affetto, finendo per soffocarla.
Da parte del figlio, l’incapacità di prendersi gradualmente la responsabilità delle proprie scelte finisce per spingerlo a continuare ad esigere dal genitore l’esercizio della funzione di garanzia, rinunciando ad esercitare quell’autonomia decisionale, assumendone le conseguenze, che sola può condurlo allo stato di adulto e a salvaguardare –da adulto- la relazione d’affetto.
Le modalità per passare dall’esercizio delle funzioni genitoriali alla rinuncia ad esercitarle possono essere estremamente variabili e variamente graduate, purché si faccia strada con sempre maggiore lucidità la sostanziale differenza tra l’essere genitore e svolgerne le funzioni.

lunedì 27 giugno 2016

DEMOCRAZIA DIRETTA? ANCHE NO.

So che va di moda il contrario, ma -a costo di sembrare blasfemo- vorrei dire che a me la democrazia diretta non piace per niente.

Non mi sembra una conquista, anzi.

Il referendum consente agli elettori di pronunciarsi senza alcun intermediario su un tema specifico in forma secca e polarizzata: si o no. La democrazia diretta non solo esclude ogni delega rappresentativa, ma -con essa-  esclude la possibilità stessa di ogni mediazione. Quale che sia la complessità del problema esso deve necessariamente essere ridotto ad un si o ad un no.

Ecco, appunto, io invece l’intermediario lo voglio: ne ho bisogno perché le mie competenze sono (assai) ridotte e perché mediare le soluzioni ai problemi politici è un lavoro impegnativo e non è il mio.

L’intermediazione serve proprio a far sì che la competenza nel merito e la capacità di mediazione svolgano la loro funzione. So bene che ogni intermediazione e ogni delega comporta rischi e può essere insoddisfacente (sia sul versante della competenza che su quello della mediazione), ma se una funzione è difettosa va ridefinita, non annullata. Se il medico che mi cura non mi dà fiducia cambio medico, non faccio decidere al condominio la mia diagnosi e la mia terapia.

La  scelta migliore non è garantita dal numero dei consensi, ma dalla competenza nel merito e dalla capacità di mediazione fra le diverse prospettive. E poi davvero tutte le scelte si possono ridurre ad un si o ad un no? E se il numero dei consensi fosse garanzia di una buona scelta, perché allora non far decidere a un referendum se l’imputato in un processo è colpevole o innocente, o quale intervento chirurgico sia il migliore per un malato o a chi far guidare l’aereo su cui si sta per partire?

Se una questione è complessa, complessa deve essere la risposta e una risposta complessa esige competenze, approfondimenti, tempi per le necessarie mediazioni.

Senza competenza e mediazione le scelte saranno inevitabilmente figlie della paura e della rabbia, cioè dei due sentimenti più facili da condizionare.

La condizionabilità è inversamente proporzionale alla competenza. Le persone non competenti nel merito sceglieranno necessariamente in base a simpatie/antipatie o a convinzioni superficiali indotte e la loro influenzabilità  favorirà chi ha maggiori strumenti e mezzi economici per guidare il condizionamento.

Sono anch’io -senza riserve- per la partecipazione attiva e diretta dei cittadini alla vita politica e alla costruzione del consenso sulle scelte, ma non credo affatto che maggiore partecipazione significhi decidere tutti su tutto a colpi di si e di no; partecipazione è aumentare il livello di consapevolezza di un numero sempre maggiore di persone, comprendere la complessità delle questioni e valorizzare le competenze di ognuno. Altrimenti è come giocare alla roulette russa.

sabato 11 giugno 2016

SOGNARE E GOVERNARE


In campagna elettorale si gioca a chi il sogno ce l'ha più grande.
Governare significa invece mediare quotidianamente fra interessi divergenti anche se legittimi; tutelare i più deboli senza demonizzare gli altri; essere capaci di comporre e non acuire i conflitti sociali.
Governare significa affrontare la complessità e accettare il prezzo delle inevitabili approssimazioni senza cedere alla tentazione di semplificarla in contrapposizioni banali e inutili.
Governare è tutta un'altra storia.

sabato 14 maggio 2016

NULLA DI NUOVO?





Sfoglio le prime pagine dei giornali:

-      a Roma i candidati sindaco si sono ridotti a quattro;

-      lo “staff di Grillo” sospende il sindaco di Parma;

-      gli afghani fermati a Bari vengono rilasciati perché non erano terroristi;

-      a Cannes, come ogni maggio da settant’anni, srotolano il tappeto rosso in attesa di capolavori veri o presunti.

Sembro troppo vecchio e cinico se dico che non ci trovo nulla di nuovo? Che mi sembrano vecchi fotogrammi di film già visti?

A Bagdad tre autobombe dell'Isis hanno ucciso almeno 90 persone e ne hanno ferite gravemente 140, ma siamo lontanissimi da Parigi e scrivere “Je suis Bagdad” suonerebbe scontato e polemico.

Vorrei assistere a sfide nuove di grande respiro, invidiare gioventù che rincorre ideali esagerati e progetti improbabili; vorrei vedere giovani che non si sentano già vecchi piuttosto che anziani che fingono di essere giovani.

Mi viene il sospetto che quando si dice che l’Europa è un continente vecchio non sia solo una questione demografica, ma si tratti di una sorta stanchezza culturale, di rifiuto del rischio, di coazione a ripetere schemi già percorsi.

I sintomi della fine degli imperi sono ben noti: proliferazione della burocrazia, autocelebrazione compiaciuta, sazietà fisica e morale, crisi demografica… forse nella Roma nel quinto secolo passavano troppo tempo a discutere sugli ultimi modelli di biga e a rimpiangere i bei tempi andati per accorgersi che i “barbari” erano giovani, forti e pieni di vita….

lunedì 9 maggio 2016

LA REGOLA DEL GIOCO


“Arduino si rese conto che ricordava solo una parte degli ottantuno anni che aveva vissuto, una piccola parte (e non era affatto sicuro di ricordarsela bene).
E
... il resto? Tutte quelle giornate, i mesi, gli anni che erano passati senza lasciare un segno? Se non li ricordava lui che li aveva vissuti, di certo non li avrebbe ricordati nessun altro. E quando lui sarebbe morto, anche i suoi ricordi sarebbero scomparsi.

E cosa ne è di ciò che nessuno ormai ricorda più? Come per tutti, dopo aver ingoiato innumerevoli storie, sentimenti un tempo appassionati e pulsanti, ricordi intensi e speranze incompiute, l’oblìo avrebbe presto risucchiato anche la sua vita, senza lasciare residui.
Questa consapevolezza, tuttavia, gli apparve naturale e saggia e non gli procurò né ansia, né sofferenza.


La sua vita, i suoi sentimenti, i suoi ricordi valevano dunque esattamente quello che per lui avevano significato: il fatto che ben presto sarebbero stati dimenticati nulla toglieva al loro valore, né impoveriva lui in alcun modo. Così era: senza residui.
Perché considerare la consapevolezza delle regole del gioco una cattiva notizia?”



domenica 8 maggio 2016

FESTA DELLA MAMMA


La mia è già un po’ che non c’è più, e allora (sono sicuro che non sarà gelosa) ne ho scelta un’altra per farle gli auguri.

Ho scelto questa
...mamma senza nome, su una strada senza meta.

Voglio augurarle di incontrare persone che non si nascondano dietro le parole e non abbiano paura di aprirle la porta e le braccia.


Voglio augurarle di trovare un posto sicuro dove crescere suo figlio, dove invecchiare lentamente e raccontargli mille volte la storia di quell’inverno sulle montagne.


Voglio augurarle di avere fortuna pari alla metà del suo coraggio: basterà.



mercoledì 30 marzo 2016

DIMENSIONE PARALLELA



La prima domanda allo sportello è stata: “è la prima volta?” e “si”, per me era la prima volta.
E dopo un paio d’ore di attesa, discorsi surreali che ho ascoltato anche se non avrei voluto, richieste del tipo “lei chi è per lui?”, “attenda allo sportello 5 per il controllo biometrico”, “questo è il suo numero di identificazione: non lo dimentichi”… la moto lasciata per strada e il mondo quotidiano mi sono sembrati lontanissimi e -a quel punto- mi è apparso normale anche lo “svuoti le tasche nell’armadietto e ci metta anche la cinta e la cravatta”, e “digiti qui il suo codice e inserisca la mano per il riconoscimento”. Poi il portone di ferro, le feritoie con il vetro spesso e verdastro e, alla fine, la sala colloqui richiusa con la chiave da venti centimetri presa in prestito da un film americano.
Una mattinata in carcere per riabbracciare finalmente un ragazzo di poco più di vent’anni partito dall’Afghanistan per sfuggire ai talebani e rinchiuso ora in carcere a Roma per un reato che non ha neppure capito in cosa consista e costretto ad essere chiamato con un nome che non è il suo.
Gli hanno rubato l’identità, la libertà e lo trattano come un criminale, però gli danno da mangiare e il pomeriggio può anche giocare un po’ a pallone: io l’avrei presa molto peggio. Lui è più saggio: considera quanto gli accade solo un incidente di percorso e continua ad aspettare quella vita migliore che la forza dei suoi ventitré anni gli fa considerare certa e imminente.
Abbiamo anche parlato di avvocati, istanze, sentenze e ricorsi, ma il suo modo di reagire mi ha convinto che la vita in carcere è una sorta di dimensione parallela in cui il tempo è sospeso e la realtà esterna appare più o meno come una fiction di media qualità, in cui le cose accadono ma poi -spento il telecomando- la situazione rimane immutata.
Gli ho chiesto se desiderava o aveva bisogno di qualcosa. Vorrebbe un po’ di semi di zucca: “bruscolini” li chiamiamo a Roma e mi è sembrata una inconsapevole metafora.

domenica 20 marzo 2016

IL TRIONFO DELL'IPOCRISIA

Il testo dell'accordo (QUI) che i membri del Consiglio europeo e i rappresentanti della Turchia hanno firmato venerdì a Bruxelles è tra i più raccapriccianti esempi di ipocrisia che io conosca.

“Al fine di smantellare il modello di attività dei trafficanti e offrire ai migranti un'alternativa al mettere a rischio la propria vita”
(…)
“la Turchia ha convenuto di riaccogliere tutti i migranti irregolari intercettati nelle acque turche”, adottando “qualsiasi misura necessaria per evitare nuove rotte marittime o terrestri di migrazione irregolare dalla Turchia all'UE”.

La Turchia generosamente accetta di fare il lavoro sporco in cambio della modica cifra di 6 miliardi di euro e dell’abolizione dell’obbligo del visto per i cittadini turchi che vogliano entrare in Europa.
Se i membri del Consiglio europeo avessero avuto il coraggio di dire con chiarezza a queste persone quello che hanno deciso, senza affogarlo in un mare di disgustosa melassa, avrebbero dovuto scrivere più o meno così:

<<Caro siriano, afghano, iracheno, ecc. che sei in fuga dal tuo paese con tua moglie i tuoi figli e stai attraversando la Turchia per chiedere asilo in Europa, è meglio che ci ripensi.
Ci siamo riuniti qui a Bruxelles perché siamo molto preoccupati per te e sinceramente vogliamo aiutarti: in particolare vogliamo evitarti di cadere nelle mani di odiosi trafficanti e vogliamo offrirti un’alternativa al mettere a rischio la tua vita. Per questo abbiamo deciso di chiudere qualsiasi accesso alla UE e abbiamo autorizzato preventivamente la polizia turca a fermarti in qualsiasi modo e sappi che, se pure riuscissi a raggiungere fortunosamente la Grecia, ti rimanderemmo immediatamente indietro in Turchia che sarebbe lieta di “riaccoglierti” (l’abbiamo pagata sei miliardi di euro per questo). Per favore non chiederti cosa la Turchia farà di te e dove ti ospiterà: non ce lo siamo chiesto noi a Bruxelles e dunque la questione non ha importanza.  Se poi sei un siriano e sei rimasto buono buono in Turchia, potresti essere baciato dalla fortuna, infatti l’accordo che abbiamo firmato prevede che “per ogni siriano rimpatriato in Turchia dalle isole greche un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia all'UE”… pensa, potresti essere tu! Ovviamente solo se non ci hai già provato prima, infatti “la priorità sarà accordata ai migranti che precedentemente non siano entrati o non abbiano tentato di entrare nell'UE in modo irregolare”, ma attento, solo 72.000 prescelti avranno questa opportunità perché è vero che in Europa siamo 500 milioni, ma a Bruxelles non siamo riusciti a metterci d’accordo e quindi vi dovrete accontentare della disponibilità che abbiamo raccolto su base volontaria.
Ti saremmo grati se evitassi di pensare e di dire che non stiamo rispettando la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati, infatti siamo sicuri che la Turchia è per te un paese assolutamente sicuro che rispetta i diritti umani e inoltre –per sicurezza- abbiamo scritto esplicitamente nell’accordo che stiamo firmando che tutto avverrà “nel pieno rispetto del diritto dell'UE e internazionale, escludendo qualsiasi forma di espulsione collettiva”, dunque puoi stare tranquillo e fidarti della nostra proverbiale umanità ed accoglienza.>>

Quanto a ipocrisia non ci frega nessuno. 
Quanto al resto mi vergogno di essere europeo.

domenica 14 febbraio 2016

BISOGNI e DESIDERI



C’è differenza tra “bisogno” e “desiderio”.
Non avevo mai colto la sostanziale differenza tra i due concetti e li utilizzavo,  superficialmente, quasi come sinonimi. Pochi giorni fa in un articolo (che parlava di tutt’altro) ho trovato l’affermazione che mi ha acceso la luce: “il bisogno è mancanza, il desiderio è slancio”.
Non sono solo concetti diversi: sono due dimensioni alternative.
Bisogno è mangiare, bere, avere un tetto: importante, certo, ma è lo stesso per un topo, un gabbiano o un capodoglio.
Bisogno è avere un lavoro, riconoscimento sociale, sicurezza: importantissimo, certo, ma è colmare un vuoto, una mancanza che mi fa stare male, una necessità che non scelgo e che deriva dal mio vivere insieme ad altri in un sistema sociale organizzato.

Ma il desiderio è altro:
Il desiderio è il sogno, il progetto;
il desiderio è la cifra dell’uomo, il sintomo della libertà, la condizione della decisione.
Il desiderio non è un bisogno “allargato”, è fatto di altra sostanza, è una ipotesi che mi nasce dentro, di cui mi innamoro, che decido di perseguire perché in essa riconosco valore.
I desideri sono la mia vera vita, è in essi che si gioca e si decide la mia identità più autentica.
I miei bisogni sono più piccoli di me, i miei desideri più grandi.
Un bisogno si soddisfa, un desiderio si percorre.

Sono decisamente due cose diverse e l’augurio più bello che si possa fare a qualcuno è di avere pochi bisogni e tanti desideri.

mercoledì 10 febbraio 2016

“YOUR CHILDREN ARE NOT YOUR CHILDREN”


(breve riflessione per adulti dedicata a chi ha figli e crede di essere loro indispensabile)
  • - Test di gravidanza, ecografia, sala travaglio.  “Fammelo tenere in braccio
  • - Rigurgiti sulla spalla, nido, materna, elementari.  “Sei pronto per la piscina?
  • - Medie, motorino, liceo, patente...  “Prendo la macchina
  • - Esami, esami, esami. Tesi rilegata.  “Stasera non torno
Anni veloci. Anni che sembrano non finire mai e invece volano. E finiscono.
I tuoi figli vivono anche se tu non ci sei e vivranno anche quando tu non ci sarai più.
La convinzione che non possano vivere senza di te è solo un gradevole equivoco (che inconsapevolmente facciamo di tutto per alimentare).
La dipendenza dell’infanzia scompare molto prima di quanto non siamo disposti ad ammettere e viviamo come una minaccia l’accelerazione verso l’autonomia invece di goderne come di si gode di un successo, invece di dire che è giusto così, che è bello così.
Confondiamo la nostra funzione di genitori con l’affetto che nutriamo verso i nostri figli.
La funzione è limitata nel tempo e nel merito; non solo finisce, ma DEVE finire per avere successo.
Essa consiste nello star loro vicino negli anni della crescita perché poi possano fare da soli: come per tutte le specie animali. La differenza della nostra specie è nella durata di questo periodo di “assistenza” (molto più lungo) e soprattutto nel fatto che questa non si limita al piano fisico ma si esercita sul piano culturale: il linguaggio, la comunicazione, la relazione, l’accesso al sapere, le regole sociali, le regole economiche.
Un lavoro complesso, certo, ma comunque a tempo determinato.
Si tratta soprattutto di fornire (per fortuna non da soli!) una cassetta degli attrezzi e opportunità per attrezzarsi ulteriormente. Non molto più che qualche “dritta” e arriva rapidamente il momento in cui non hai più niente da dire, più niente da dare: non è la tua sconfitta, è la tua vittoria! Dovrebbe essere una festa! Come sempre solo il distacco, la “perdita”, consente che ci sia una cosa nuova. (Un film tutto da vedere, ma da spettatori).

“I vostri figli non sono figli vostri. Sono figli e figlie della sete che la vita ha di se stessa.
Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi, e benché vivano con voi non vi appartengono.
Potete donare loro amore ma non i vostri pensieri: essi hanno i loro pensieri.
Potete offrire rifugio ai loro corpi ma non alle loro anime: esse abitano la casa del domani, che non vi sarà concesso visitare neppure in sogno.
Potete tentare di essere simili a loro, ma non farli simili a voi: la vita procede e non s'attarda sul passato.”
Khalil Gibran, Il Profeta, 1923


domenica 24 gennaio 2016

OTTANTOTTO TASTI


Tu pensa a un pianoforte. I tasti iniziano? I tasti finiscono! Tu lo sai che sono 88 e su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti loro. Tu sei infinito. E dentro quegli 88 tasti, la musica che puoi fare è infinita. Questo a me piace. In questo posso vivere. Ma se davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti... milioni e miliardi di tasti che non finiscono mai... E questa è la verità... che non finiscono mai. Quella tastiera è infinita. Ma se quella tastiera è infinita allora su quella tastiera non c'è musica che puoi suonare. E sei seduto sul seggiolino sbagliato. Quello è il pianoforte su cui suona Dio..."
(QUI)
(“Leggenda del pianista sull’oceano”, film di G.Tornatore, 1998)

Forse è il caso di ridefinire la tastiera: ognuno la sua
Ridefinire i confini di ciò che davvero ci interessa, di ciò che davvero riteniamo importante e suonare quello che possiamo e sappiamo sui nostri 88 tasti. Selezioniamo noi con cura la musica da ascoltare perché molta è solo rumore di fondo.

mercoledì 6 gennaio 2016

LA RINUNCIA ALLA COMMOZIONE

Non ci si può commuovere sempre.
La commozione è come la tenerezza: l’abitudine la uccide.
Quando -poco più di un anno fa- l’ostaggio americano Peter Kassig fu sgozzato da Jihadi John, il boia dell’Isis, ci commuovemmo, restammo inorriditi dal video, colpiti dalle foto della moglie e del figlio; quando -pochi giorni fa- il nuovo boia Siddartha Dhar ha sparato in testa a cinque “spie” inglesi ci siamo interrogati su quanto il suo accento imitasse quello di Jihadi John e Cameron ha liquidato il fatto come “roba da disperati”… non ci siamo neanche chiesti chi erano le cinque vittime. Non ci si può commuovere sempre.
Quando - solo quattro mesi fa- la foto del piccolo Aylan sulla spiaggia di Bodrum ci tolse il sonno, ci commuovemmo fino alle lacrime; addirittura  Angela Merkel si commosse tanto da spalancare le porte della Germania ai siriani in fuga. Oggi siamo in grado di digerire un paio di barconi al giorno e bambini annegati a grappoli tra un panettone e un pandoro. Non ci si può commuovere sempre.
E’ normale. Certo che è normale.
Non è che siamo diventati insensibili… solo che per commuoverci abbiamo bisogno di qualcosa di nuovo. Che ne so… un gattino zoppo sul gommone? Un peluche sporco di sangue? Un boia che uccida stando in equilibrio su uno sgabello?
E ora che non ci commuoviamo più per così poco, cosa siamo diventati?
Più adulti? più razionali? più pragmatici?
Liberati dall’impiccio infantile della commozione,  siamo ora in grado di affrontare i problemi con maggiore determinazione ed efficacia?
Con cosa l’abbiamo sostituita la nostra capacità di commuoverci? Probabilmente con la capacità di annoiarci. Perché la commozione fine a se stessa non ha senso, lo acquista solo se funziona da detonatore, se spinge a reagire, se evolve in analisi, se innesca scelte, azioni concrete e cambiamenti.
Se non succede muore, come una carezza stanca uccide la tenerezza.

E’ vero, non ci si può commuovere sempre, ma di abitudine si può anche morire.