La
commozione è come la tenerezza: l’abitudine la uccide.
Quando
-poco più di un anno fa- l’ostaggio americano Peter Kassig fu sgozzato da
Jihadi John, il boia dell’Isis, ci commuovemmo, restammo inorriditi dal video,
colpiti dalle foto della moglie e del figlio; quando -pochi giorni fa- il nuovo
boia Siddartha Dhar ha sparato in testa a cinque “spie” inglesi ci siamo
interrogati su quanto il suo accento imitasse quello di Jihadi John e Cameron
ha liquidato il fatto come “roba da
disperati”… non ci siamo neanche chiesti chi erano le cinque vittime. Non
ci si può commuovere sempre.
Quando
- solo quattro mesi fa- la foto del piccolo Aylan sulla spiaggia di Bodrum ci tolse
il sonno, ci commuovemmo fino alle lacrime; addirittura Angela Merkel si commosse tanto da spalancare
le porte della Germania ai siriani in fuga. Oggi siamo in grado di digerire un
paio di barconi al giorno e bambini annegati a grappoli tra un panettone e un
pandoro. Non ci si può commuovere sempre.
E’
normale. Certo che è normale.
Non
è che siamo diventati insensibili… solo che per commuoverci abbiamo bisogno di
qualcosa di nuovo. Che ne so… un gattino zoppo sul gommone? Un peluche sporco
di sangue? Un boia che uccida stando in equilibrio su uno sgabello?
E
ora che non ci commuoviamo più per così poco, cosa siamo diventati?
Più
adulti? più razionali? più pragmatici?
Liberati
dall’impiccio infantile della commozione,
siamo ora in grado di affrontare i problemi con maggiore determinazione
ed efficacia?
Con
cosa l’abbiamo sostituita la nostra capacità di commuoverci? Probabilmente con
la capacità di annoiarci. Perché la commozione fine a se stessa non ha senso,
lo acquista solo se funziona da detonatore, se spinge a reagire, se evolve in
analisi, se innesca scelte, azioni concrete e cambiamenti.
Se
non succede muore, come una carezza stanca uccide la tenerezza.
E’
vero, non ci si può commuovere sempre, ma di abitudine si può anche morire.
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