lunedì 31 dicembre 2012

CAPI D'ANNO

"Questa vita che ti passa accanto e con le mani ti saluta e fa bye bye, questa vita un po' umida di pianto con i giorni messi male vista dall'alto sembra un treno che non finisce mai...  e adesso, mio dio, dimmi cosa devo fare se devo farla a pezzi questa mia vita oppure sedermi e guardarla passare."
("Meri Luis", Lucio Dalla, 1980)

I capodanni (e i compleanni) sono perfetti per darci la misura del tempo che passa provocandoci sentimenti contrastanti: siamo incerti se rallegrarci -come ci accadeva da bambini per la soddisfazione di sentirci più grandi e poter finalmente giocare la partita- o allarmarci per la spiacevole sensazione che sia ormai la partita a giocare noi.
Fino ad un certo punto ci viene facile considerare la vita come risultante di ciò che decidiamo, poi -anno dopo anno- appare evidente che una buona parte di ciò che ci accade non dipende affatto dalle nostre decisioni, ma dalla combinazione più o meno casuale degli eventi, delle persone che incontriamo, delle decisioni altrui. È a questo punto che sviluppiamo due atteggiamenti opposti: convincerci che non vale la pena di sforzarsi più di tanto per far andare le cose in un verso piuttosto che in un altro o convincerci che, malgrado le variabili fuori controllo, il significato delle cose lo decidiamo comunque noi.
Il primo atteggiamento è una scorciatoia sicura per la vecchiaia precoce (il club delle vittime del fato), il secondo presenta innegabili vantaggi tra i quali continuare a sperare che il futuro possa essere ragionevolmente migliore, riuscire a sorridere senza sembrare vittima di un ictus, garantirsi il diritto di lamentarsi se le cose non vanno bene, augurarsi "buon anno" senza che sembri una battuta di cattivo gusto.
Buon anno, dunque, con l’augurio a tutti di far parte del secondo gruppo.

domenica 9 dicembre 2012

SE LA CRISI NON PASSA

Egitto, 1080 avanti Cristo, regno di Ramses III.

La crisi è evidente: il paese soffre di una gravissima situazione economica che porta all'inflazione,  tra gli operai della necropoli tebana si verificano continui scioperi di protesta per le paghe non corrisposte; bande di ladroni depredano le ricche tombe dei faraoni nella Valle dei Re e i popoli del mare che arrivano da Cipro e da Creta minacciano le città della costa.
Amenothep è esasperato e non può fare a meno di chiedersi: quando finirà questa crisi?  quando l’economia del paese ricomincerà a funzionare come in passato? bisognerà aspettare un altro governo? un nuovo faraone? “Ce l’abbiamo sempre fatta, sono oltre duemila anni che gli egiziani dominano la valle del Nilo, La Nubia, la Libia e le terre ad oriente del mar Rosso… non finirà certo per  uno sciopero, l’inflazione della moneta e qualche aggressione di predoni!”.
Ma la crisi non passò e la civiltà egiziana dopo oltre duemila anni finì così -senza eccessivo clamore- fra uno sciopero, un’inflazione , un governo debole e battibecchi fra notabili, sfarinandosi nel giro di qualche anno.
Eppure le riflessioni di Amenothep apparivano ragionevoli. Ricordando, qualche anno dopo, quell’inverno del 1080 a.C. si diceva: “Non si è trattato certo di una paura da ‘prima volta’. Di crisi negli ultimi decenni ne abbiamo attraversate a ripetizione. È forse questa continua iterazione che spiega perché, di fronte alle drammatiche vicende dell’ultimo anno, la nostra società abbia avuto l’automatica tentazione di derubricarle, ritenendole una ulteriore riproposizione di dinamiche precedenti e immaginando quindi che anche stavolta si potessero riutilizzare gli aggiustamenti sperimentati in passato. Pensavamo quindi, sotto sotto, di essere indenni e immuni da giorni cattivi. E invece ci siamo ritrovati inermi, in una immunodeficienza tanto inattesa quanto pericolosa.” (46° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, CENSIS, Roma, 7 dicembre 2012)
La crisi non finisce come finisce l’inverno, né passa come passa un mal di gola.
Non è che un bel giorno qualcuno ci informa: “Signore e signori, la crisi è finita” e -oplà- tutto ritorna come prima.
Le  crisi profonde non “passano”, marcano il passaggio da una situazione ad un’altra, cambiano i posizionamenti e gli stili di vita, instaurano un diverso accesso ai beni e ai servizi, modificano l’uso del tempo e la distribuzione del lavoro, insomma la vita delle persone.
Un recente rapporto promosso dal McKinsey Global Institute ci informa che tra meno di 15 anni nessuna città italiana figurerà più tra quelle ritenute maggiormente significative nel mondo per capacità di produrre reddito e per qualità di vita offerta ai suoi abitanti (http://www.amiciperlacitta.it/articolo.cfm?id=1694).
Ovviamente questo processo non si compirà di colpo in una mattina di primavera, è in pieno e tumultuoso svolgimento, e quella che noi chiamiamo “crisi”, come se fosse malessere passeggero, non è altro che il suo progressivo e inarrestabile realizzarsi.
Alla domanda se tutto questo comporterà che nei prossimi anni e decenni saremo più poveri, avremo meno accesso a beni e servizi, ci sarà meno lavoro e dovremo accontentarci di bassi stipendi e magre pensioni la risposta è assolutamente e inappellabilmente “Si”.
Non è un dubbio o una eventualità, è una certezza assoluta. Ma questo non vuol dire che ci resta solo da tentare il suicidio di massa. Quello che ragionevolmente possiamo e dobbiamo fare è capire il processo in corso e cavalcarlo senza subirlo passivamente, dismettendo lo sciocco atteggiamento dei nobili decaduti che riescono a parlare solo degli splendori passati invecchiando tristemente tra un rancore e una tisana.
Non tutto è negativo (e comunque, anche se lo fosse, non è lamentandoci che lo cambieremo). Il Rapporto CENSIS di pochi giorni fa registra che “in questo sobbollire di pulsioni negative, i tempi cattivi avrebbero potuto diventare pessimi, nella drammatica attesa di tracolli da qualcuno preconizzati come inevitabili. Invece nel sottofondo della dinamica sociale ha cominciato a vedersi una sua autonoma tensione alla solidità, confermando l’antica verità che le crisi, forse proprio nel sobbollire di pulsioni negative, inducono a percorsi di complessa maturazione del corpo sociale, di “iniziazione” direbbero i non razionali e i non dotti.
Abbiamo visto milioni di persone sopravvivere da sole alla crisi, con un’intima tensione a cambiare (ad “essere altrimenti”) e con differenziati riposizionamenti di competizione e di coesione.”
Le crisi ci sono sempre state, in tutti i periodi, solo che quando si sviluppavano fuori dall’Europa le consideravamo poco più che avversità meteorologiche alla periferia dell’impero. Quando le economie asiatiche non riuscivano decollare negli anni sessanta o quelle africane andavano a picco negli anni novanta, in entrambi i casi con conseguenze drammatiche per milioni di  persone, non parlavamo di crisi epocale e planetaria:  la crisi è solo una questione di “dove” e di “quando”.
L’attuale crisi europea vista dalla Cina o dall’India appare come una semplice ridistribuzione del lavoro e dei profitti a netto vantaggio dell’area asiatica, conseguenza di una migliore economia e di una potenzialità demografica e produttiva con la quale l’Europa non può neppure sognare di competere.
Non siamo vittime di un complotto. La nostra tendenza a universalizzare ciò che ci accade come se fossimo il centro dell’universo è una distorsione difficile da guarire, eppure è proprio dal superamento di questo provincialismo che dipende il nostro riuscire a vedere il futuro in modo nuovo.
Come sarà il futuro dopo la crisi? Certamente molto diverso dal passato. Certamente meno facile.
Ma non è la fine della nostra civiltà (anche se la fine delle civiltà fa parte della fisiologia della storia: chiedetelo agli egiziani, agli assiri, ai maya, ai persiani, ai romani…) è solo una nuova storia e una nuova sfida.
Può darsi che i nostri figli debbano spostarsi a Shangai o a Bangalore se vorranno avere un buon lavoro, così come i loro bisnonni partivano per New York e come i Filippini partivano per Roma… o forse sceglieranno di restare in Europa e lavorare in economie di nicchia, l’importante è che abbiano gli strumenti per capire cosa sta succedendo in questo mondo e la capacità di decidere cosa fare.
Non è la crisi che deve “passare”, siamo noi che dobbiamo cambiare occhi, orizzonti e prospettive.

lunedì 19 novembre 2012

SKYFALL

“Skyfall”, ultimo spettacolare film di 007. Un navigato James Bond ironizza sulla giovane età del nuovo Quartermaster  dei servizi segreti inglesi che, irritato, puntualizza: “L’età non è garanzia di efficacia”. Bond ribatte “La gioventù non è garanzia di innovazione”.
Nulla di nuovo, solo l’eterno  conflitto generazionale riscontrabile in ogni cultura e in ogni epoca.
La novità dei nostri tempi (secondo me non buona) non è nella conflittualità tra vecchi e giovani, ma nella parola “garanzia”.
Vogliamo, anzi pretendiamo, la garanzia che quello che facciamo, (vogliamo, scegliamo, aspettiamo, speriamo, votiamo) funzioni.
Non si capisce bene chi dovrebbe o potrebbe "garantirci" l'efficacia delle nostre scelte personali, affettive, lavorative, sociali e politiche. La verità -che preferiamo rimuovere- è che nessuno può garantirci, dobbiamo accettare il rischio di sbagliare o di essere ingannati. Insomma il contrario della garanzia..
Deviati e viziati dal "soddisfatti o rimborsati" con cui cercano di spingerci a fare acquisti (apparentemente) senza rischi, non sappiamo e non vogliamo (più) correre rischi in nessuna delle nostre scelte, e quando siamo costretti a farlo ci sembra di subire un torto o un ricatto.
Ovviamente è più comodo e rassicurante credere al politico di turno che ci "garantisce" un futuro con più giustizia, meno tasse, più investimenti, meno problemi, migliore sviluppo, ecc. (rimuovendo il dubbio che alcune di queste garanzie siano tra loro incompatibili !), che cercare di capire cosa sia veramente possibile fare e ragionevole attendersi.
Insomma, non potendo più credere a babbo natale per ragioni anagrafiche, recuperiamo alla grande sul piano politico, disposti a credere qualunque cosa, purché bella e risolutiva.
A meno che non pensiamo di essere James Bond, ma di quello ce n'è uno.

domenica 11 novembre 2012

LA SOTTILE LINEA ROSSA

Più leggo i discorsi e le dichiarazioni dei politici, più mi torna in mente l’affermazione di Rudyard Kipling «Tra la lucidità e la follia c'è solo una sottile linea rossa», da cui il titolo del grande film di Terrence Malick, Orso d’oro al festival di Berlino del 1998.
Mi riferisco a quella sottile linea che distingue le affermazioni banali da quelle che hanno un significato, il politichese vuoto dalle proposte sul merito, i valori generici dalla loro declinazione sul piano di realtà.
Mi piacerebbe riuscire a tenere d’occhio questa linea rossa per restare possibilmente dalla stessa parte (quella sensata),  ma non è impresa facile perché essa è diventata davvero sottile, e sembra che i politici non abbiano alcun interesse a renderla visibile.
E’ diventata sottile perché la complessità delle questioni rende sempre più urgente la necessità di semplificare e “parlar chiaro” (per poterci capire qualcosa, farsi un opinione e decidere fra opzioni comprensibili e sensate, o  anche semplicemente per comunicare la propria posizione), ma il limite di questa semplificazione è proprio la banalità e non è facile trovare l’equilibrio giusto tra il “complicato” e lo “stupido”. Probabilmente affermare che “la riduzione del cuneo fiscale può favorire la crescita del prodotto interno lordo e dell'occupazione” è ancora troppo complicato per farsi capire da chi non si occupa di economia e fiscalità, ma se –per semplificare ulteriormente- si dice “basta con le tasse, creiamo posti di lavoro!” in realtà non si sta dicendo niente di significativo nel merito del problema, ma solo esprimendo un desiderio sicuramente condivisibile ma generico. Quanto è larga “la linea rossa” tra le due affermazioni? Chi è capace di formulare meglio il pensiero perché sia più comprensibile ma senza perdere il suo significato? E, soprattutto, ai politici interessa davvero salvare il senso di quanto affermano (non sempre compatibile con il con-senso a basso prezzo)?  Lo sappiamo tutti che paga più un “Meno tasse per tutti!” che un piano serio di riduzione del debito pubblico, ma è proprio per questo che oggi stiamo come stiamo.
Se il linguaggio non “significa” più quello che dice non serve più a niente.
Non ha tutti i torti Grillo quando afferma nel suo blog che il linguaggio politico è oggi diventato "una ‘Lourdes linguistica’ che edulcora e trasforma le parole, sostituisce la realtà, si pone come sudario sul corpo vivo della società” o quando cita George Orwell (da "Politics and the English Language"):"Se semplifichi il tuo linguaggio, ti liberi dalle peggiori follie dell'ortodossia. Non potendo più parlare nessuno dei gerghi prescritti, se dici una stupidaggine la tua stupidità sarà evidente anche a te. Il linguaggio politico e' inteso a far sembrare veritiere le menzogne e rispettabile ogni nefandezza, e a dare una parvenza di verità all'aria fritta", ma la soluzione non è certo nell’illusione che basti gridare “pane al pane” e “vino al vino” per recuperare una verginità impossibile, la soluzione è tenere d’occhio la linea rossa (per sottile che sia) e fare ogni volta lo sforzo di avvicinarsi il più possibile al confine della semplificazione comprensibile senza cadere nella stupidità e senza farlo apposta per vendere area fritta a buon mercato.

giovedì 4 ottobre 2012

IL VIAGRA E LA POLITICA

No, non c’entra niente il bunga bunga.
Per fare politica (e non solo) c’è bisogno di voglia.
Senza voglia non si fa niente, e se la voglia non c’è più non è facile farsela tornare.


Per avere voglia di fare politica (nel senso di interessarsene, di dedicarle attenzioni e passione, di cercare di capirne la complessità, di partecipare attivamente) si devono verificare contemporaneamente due condizioni:
  1. Credere nella bontà del progetto (condividerne le ragioni e le finalità)
  2. Credere che il proprio impegno serva davvero a realizzarlo
Se viene meno anche una sola delle due condizioni la voglia se ne va.
Oggi stanno venendo meno tutte e due.
-Come credere nella bontà del progetto se non si capisce più qual è il progetto?
-Come credere che il proprio impegno serve davvero se si capisce che comunque le decisioni sono prese altrove e non dipendono in nessun modo da quello che fai o non fai?

Lo so che è facile fare le domande e non è facile dare le risposte, ma se fossi un politico mi sforzerei di trovare due rispostine credibili in tempi brevi, perché se la voglia se ne va del tutto fare politica sarà come giocare in uno stadio vuoto in cui a segnare non c’è più gusto e vincere o perdere è la stessa cosa.
E’ una questione di voglia e il viagra per questo non l’hanno ancora inventato…

sabato 29 settembre 2012

NUOVO DI ZECCA?

- Innovazione, nuovo, novità ! Anzi basta con le vecchie parole, proviamo con nuovitudine, nuoverìa, innovismo…  insomma basta con le solite facce, le solite promesse, i soliti discorsi…
- Vorresti nuove facce, nuove promesse e nuovi discorsi ?
- Non solo! Bisogna proprio cambiare aria, musica, registro... insomma voltare pagina! Mi sono spiegato?
- No, non ti sei spiegato. Sono tutti modi di dire, perfetti per esprimere lo stato d’animo ma assolutamente inutili per definire contenuti
- Questo è il mio stato d’animo!
- Questo l’avevo capito. Quello che non ho capito è cos’è che vuoi di nuovo.
- Cominciamo con le facce!
- Facce qualsiasi? Basta che non siano quelle di prima? Anche se dietro la faccia nuova ci fossero le stesse  idee della faccia vecchia, con gli stessi vizi e le stesse abitudini?
- D’accordo, cambiare solo le facce non basta, servono anche idee nuove, ma queste idee nuove non sarebbero credibili abbinate alle facce vecchie, ecco perché servono nuove anche le facce
- Dunque le facce nuove servono solo a rendere credibili idee nuove. Senza queste, le facce nuove non servirebbero. E queste idee nuove che cosa dovrebbero riguardare?
- Tutto. Il tipo di società, l’economia, il rapporto tra cittadini e politica, il welfare, la pubblica amministrazione, la scuola, il lavoro…
- …nient’altro? Questa è roba da messia! Ognuna di queste parole si può declinare in mille modi. Che significa una nuova economia?  Non è mica una cosa che si può cambiare con un clic… non possiamo mica rifarci in casa le regole come se fossimo soli al mondo; la nostra economia è un pezzo dell’economia mondiale;  e non è solo questione di euro o non euro, spread o non spread, è questione di esportazioni e importazioni, di rapporto con i paesi che possiedono il nostro debito pubblico (senza rinnovare il quale non riusciremmo a pagare neppure le pensioni e gli stipendi agli insegnanti e ai poliziotti). Cos’è che vorresti “nuovo” più precisamente?
- Beh, ad esempio vorrei nuove le regole dei contratti di lavoro. Vorrei che non esistessero più i contratti “tipici” e quelli “atipici”: vorrei una sola forma per tutti, semplice e comprensibile anche ai non addetti, una forma in cui la differenza tra una busta paga e un'altra riguardi solo quantità del compenso, non le coperture assicurative e la previdenza!
- Non è una cosa facile, ma almeno questa è una cosa definita. Una novità non da poco che potrebbe essere un obiettivo perseguibile. Un’altra cosa nuova “definita”?
- Qualcosa sui requisiti di chi ci governa: fedina penale pulita e una sorta di “patente” che garantisca un adeguato livello culturale e di competenza. Nessuno può garantire l’onestà futura, ma almeno quella passata non dovrebbe essere difficile…
- Questa, oltre ad essere precisa, non è neppure difficile da attuare. Una “novità” davvero a portata di mano.
- Comincio a prenderci gusto. Forse il lavoro da fare è proprio questo “spacchettamento”: smontare i capitoli grandi nei singoli pezzi che li compongono e identificare le “novità” che vogliamo pezzo per pezzo…
- …in questo modo sarà più facile sia indicare ciò che vogliamo, sia verificare se la “novità” ci sarà o non sia solo “una cosa vecchia con il vestito nuovo”, come cantava Guccini.

domenica 16 settembre 2012

AMELIE E IL PROGRAMMA ELETTORALE

Chi  ha visto il film ricorderà certamente la prima, efficacissima, sequenza de “Il favoloso mondo di Amélie” (2001, regia di Jean-Pierre Jeunet). Il regista presenta i suoi personaggi semplicemente elencando ciò che a loro “piace” e ciò che a loro “non piace”. Ad Amélie, ad esempio,  piace tuffare la mano in un sacco di legumi o rompere la crosta della crème brûlée  con la punta del cucchiaino, mentre non piacciono i vecchi film americani in cui il guidatore non guarda la strada (se avete 2,37 minuti liberi godetevi l’inizio del filmhttp://www.youtube.com/watch?v=R5ATnTvqNLQ).
Ci è sempre molto più facile dire cosa ci piace e cosa non ci piace che dire cosa vorremmo fare e come.
La rudimentale opposizione “non mi piace- mi piace” si è recentemente evoluta (non di molto per la verità!) nell’opposizione “non sopporto…-ci vorrebbe…”.  Non sopportiamo i politici corrotti, gli economisti saccenti, i giornalisti prezzolati, la crisi, lo spread, gli aumenti della benzina, gli speculatori, la casta, il caro-libri, gli evasori, le tasse, i ticket, ecc.; quello che invece ci vorrebbe è un governo che governi, una maggiore equità fiscale, politiche per lo sviluppo, la diminuzione delle tasse, una seria lotta all’evasione, far pagare quelli che non pagano mai, ospedali che funzionino, scuole che funzionino, meno sprechi, più qualità della vita, lavoro per i giovani, ecc. .
Niente di strano, chi non vorrebbe quello che “ci vorrebbe” e chi apprezzerebbe quello che “non sopportiamo”?
Negli ultimi mesi c’è da registrare un progressivo approfondimento del solco che divide i nostri incubi (non sopporto) dai nostri desideri (ci vorrebbe). Non avendo più molto da aggiungere alla lista di ciò che non sopportiamo e a quella di ciò che ci vorrebbe, ci siamo scatenati sui verbi: “non sopporto” (che aveva almeno il pregio di riferire un nostro sentimento) si è nervosamente trasformato in “fanno schifo”, “hanno rotto”, “non se ne può più”, fino ad arrivare al grido “ora basta!” che sembra chiudere definitivamente la partita. (Ma solo quella dei vocaboli, purtroppo, anche se molti sembrano ancora credere infantilmente che basti pronunciare la formula e battere un pugno sul tavolo per fare la magia). Anche il “ci vorrebbe” ha avuto la sua evoluzione perdendo la discrezione che gli derivava dal condizionale per diventare “bisogna assolutamente”, “è ora di”, “dobbiamo pretendere”.
Grazie a questa accelerazione lessicale diventa discretamente facile mettere a punto un programma elettorale vincente. Ecco le semplici istruzioni:
  1. fare un elenco accurato di ciò che gli elettori “non sopportano”, eventualmente caratterizzandolo in caso di discorsi a gruppi definiti (disoccupazione e ricambio generazionale se si parla a giovani, pensioni ritardate e valorizzazione dell’esperienza se si parla a vecchi e così via);
  2. immedesimarsi con l’esasperazione di chi “non sopporta” calcando la mano con esempi dettagliati a tinte forti, citando fatti di cronaca ed evidenziando la vicinanza con il problema (“proprio l’altro giorno un mio amico mi diceva…”);
  3. alludere continuamente ai responsabili di questa situazione insostenibile (senza necessariamente fare nomi e cognomi, meglio un generico “loro”, “questi signori”, i “politici”, ecc.) lasciando intendere  di essere di un’altra razza e che dopo le elezioni “si cambierà musica” (ovviamente con voi);
  4. descrivere la nuova “musica” utilizzando a piene mani l’elenco dei “ci vorrebbe” senza (ovviamente) entrare nel merito del come intendete farlo e di come riuscirete a rendere sostenibili scenari tra loro evidentemente non compatibili.
Ecco pronto il vostro programma elettorale vincente! Manca solo una accettabile confezione comunicativa e un paio di slogan. Guarnire con qualche testimonial di successo e servire caldo.

Forse, se c’è una cosa di cui siamo davvero stanchi è la banalità.
Non ci servono taumaturghi e uomini della provvidenza: vorremmo programmi che entrino nel merito dei problemi, che dicano in concreto cosa intendono fare e soprattutto come (confrontandosi con gli altri “come”), che non ci illudano di essere magicamente risolutivi, che non nascondano le contraddizioni, che sulle situazioni da affrontare dicano la verità (anche difficile da accettare) preferendola alle gradevoli bugie e alle pietose omissioni.
Senza promettere la luna: ce l’abbiamo già ed è gratis.

sabato 25 agosto 2012

PANE, BURRO E CRISI

- Ci aspetta un autunno caldo: rincari, tagli ai servizi... la crisi si fa sentire e non accenna a passare.
- Un "autunno caldo"... sai che novità! saranno almeno cinquanta estati che ci aspetta un autunno caldo!
- Ma che c'entra... questo è l'autunno della crisi, non è come tutti gli altri autunni, qui non si tratta di rinnovare il contratto dei metalmeccanici, questa è una crisi mondiale, generazionale, culturale, sociale...
- Facciamo anche genetica, epocale, geologica... così magari vendiamo qualche altra copia... è come la differenza tra la temperatura reale e quella "percepita", la differenza non la fa l'umidità, la fanno i telegiornali. A forza di dire che questa è l'estate più calda da cent'anni (ovviamente come quella dello scorso anno e quella dell'anno prossimo) le persone si sentono autorizzate a stramazzare a terra o a farsi mancare il respiro. Così è la crisi...
- Vorresti dire che la crisi non c'è? Che è tutta un'invenzione?
- No, vorrei dire che stiamo solo attraversando una fase economicamente negativa in cui -come non era difficile prevedere- paghiamo il conto per aver vissuto molti anni sulle spalle del futuro. Quando i governi continuavano ad indebitarsi e con quel denaro facevano assunzioni elettorali nella pubblica amministrazione o appaltavano lavori pubblici alle imprese mazzettare, nessuno si lamentava dei posti di lavoro che venivano "creati"... quando il mercato finanziario, drogato dai "derivati dei derivati" che esistevano solo sulla carta, pagava interessi a due cifre a chi comprava fondi di investimento nessuno si lamentava... adesso che il giocattolo si è rotto e ci sono i conti da pagare, parliamo della crisi come se fosse una misteriosa malattia tropicale...
- Ma io che c'entro? Non sono mica stato io a indebitarmi, non sono mica stato io a lucrare sui fondi di investimento! Io ho solo lavorato, pagato il mutuo e fatto studiare i miei figli perché potessero lavorare anche loro...
- Non c'entri niente sul piano delle responsabilità, ma c'entri e come su quello delle conseguenze! La storia e l'economia non funzionano come gli incidenti stradali, quasi sempre chi paga non c'entra niente con chi è responsabile degli eventi... Che c'entravano i soldati di Caporetto con le mire espansionistiche dell'impero austroungarico? eppure hanno pagato loro... Che c'entravano i ragazzi dell'Alabama con la guerra in Vietnam? Che c'entrano i bambini senegalesi con il prezzo delle arachidi sul mercato di Chicago? E i pescatori greci con il rendimento dei titoli tedeschi? eppure pagano...
- E allora? Cosa dovremmo fare? Accettare fatalisticamente quello che succede e pagarne in silenzio le conseguenze?
- Si e no. Si nel senso che quello che è già successo ha conseguenze che non scompariranno comunque né analizzando le responsabilità, né disperandosi, né ripetendo che "è inammissibile"... . No nel senso che non c'è nulla di fatalistico, nessuna tendenza che non possa essere invertita, nessun errore che debba essere per forza replicato. Certo, bisogna tirare la cinghia, smetterla di pensare che vivere al livello economico degli ultimi trent'anni sia un diritto inalienabile, stare molto attenti a scegliere chi andrà in parlamento e chi ci governerà, non credere più alle scorciatoie e alle magìe di venditori di sogni (che siano milioni di posti di lavoro o improbabili servizi per tutti a costo zero).
- Ma proprio adesso doveva capitare?
- Gli eventi di cui possiamo scegliere il come e il quando sono davvero pochi. Le variabili sono talmente tante che solo un cretino può pensare di controllarle tutte. E poi -smettendo per un attimo di guardare solo il nostro ombelico- le crisi economiche ci sono sempre state; se per molti anni ci è sembrato che così non fosse è perché le pagavano altri popoli e altre economie: un'illusione ottica figlia di rapporti di forza che poco hanno a che fare con l'equa distribuzione delle risorse, del lavoro e dei guadagni. Ora tocca a noi e ci manca la terra sotto i piedi... ma cerchiamo comunque di non esagerare! Evitiamo l'effetto "temperatura percepita"! Non è che mentre c'è la crisi non si vive, non è che la perdita di alcune certezze sia necessariamente una tragedia, non è che se la vita non è esattamente come ce l'eravamo immaginata abbiamo diritto a un risarcimento.
La nostra capacità di affrontare la vita non è direttamente proporzionale alla capacità di lamentarci, ma a quella di fare le scelte che -adesso, in questa situazione- sono più ragionevoli e strategiche, a quella di stringere i denti e fare a meno di alcune cose preferendo investire sul futuro che recriminare sul passato. Niente è mai tutto bianco o tutto nero: tra l'epico condottiero che le cose le pretende tutte e subito e il servo della gleba che zappa senza chiedersi mai niente c'è un'ampia gamma di normalità estremamente più efficaci, a condizione che teniamo il cervello acceso e i piedi per terra.

sabato 23 giugno 2012

ANNI MIGLIORI, ANNI PEGGIORI (Quattro chiacchiere con un giovane ingegnere indiano)

-          Molto bella questa città! Sono a Roma da qualche giorno e la trovo affascinante. Io sono di Bangalore, nel sud dell’India. Roma è decisamente più piccola -a Bangalore siamo oltre sei milioni!-, ma molto più ricca di  storia, monumenti e fascino. Qui la storia si tocca davvero con mano! E poi l’Italia è una grande potenza economica, è nel G8, anche in India conosciamo e apprezziamo il famoso “made in Italy” simbolo  di qualità…
-          Una volta forse! Oggi siamo in piena crisi. Non sono certo questi i nostri anni migliori!
-          Quali anni sono stati i vostri anni migliori?
-          Difficile dirlo… probabilmente quelli del dopoguerra, con la voglia di ricostruire tutto e la speranza nel futuro, o forse gli anni ’60, con il boom economico e il PIL che continuava a crescere…
-          E in quegli anni eravate contenti? Dicevate “Questi sono i nostri anni migliori!” ?
-          Io ero un ragazzo e non saprei dirlo con precisione, tuttavia pur rammentando di quegli anni un certo ottimismo diffuso, la facilità a trovare lavoro, l’entusiasmo suscitato da eventi “storici” come le olimpiadi di Roma o l’apertura dell’autostrada del sole, ricordo anche chi (soprattutto i vecchi) si lamentava perché non c’erano più i valori di una volta, perché c’era troppo traffico, perché non c’era più religione, perché l’onestà e l’onore non erano più considerati importanti…
-          E poi, nei decenni successivi, qualcuno ha mai detto “Ecco, questi sono i nostri anni migliori!” ?
-          No, non ho mai sentito nessuno dirlo. Il fatto è che per dire che un periodo sia migliore o peggiore di un altro bisogna fare un confronto, e il confronto è necessariamente con il passato. Finisce che quando le cose sembrano migliorare ti aspetti che gli anni migliori siano quelli che devono ancora venire, e quando vanno male pensi invece che i migliori siano quelli già passati… ecco perché nessuno dice mai che il presente è il momento migliore. Oggi poi... siamo in piena crisi e tutti si aspettano il peggio…
-          Che strano! Pensa che da noi in India questo è un momento eccezionalmente positivo, un po’ come era qui da voi negli anni ’60. In questi anni a Bangalore si moltiplicano le attività,  il PIL aumenta ogni anno e per noi ingegneri elettronici (e siamo tanti) è molto facile trovare lavoro. Dicono che nella mia città ci sia la più grande concentrazione di tecnici e programmatori del pianeta. C’è molto entusiasmo e molto lavoro per i giovani. Il contrario della crisi. E’ proprio vero che tutto è relativo! Pensa che mentre qui da voi c’era il boom economico i miei nonni facevano la fame, accettavano qualunque lavoro e cercavano di emigrare…
-          Si, mi ricordo qualche manifesto contro la “fame in India”, a scuola ci facevano notare quanto eravamo fortunati rispetto ai nostri coetanei indiani… e pensare che oggi sono invece i nostri figli a non trovare lavoro… forse dovrebbero venire a cercarlo in India… 
-          E perché no? Ma vi avverto… devono essere davvero bravi e devono avere voglia di lavorare, sennò sarà dura…
-          Forse allora la crisi non è così globale come dicono… È che ci sentiamo sempre al centro del mondo: quando la crisi riguarda noi è “universale”, quando riguarda gli altri è solo “in via di sviluppo”.  Forse sarebbe più corretto precisare meglio di che crisi parliamo, chi coinvolge e quali aspetti riguarda… noi italiani abbiamo un po’ la tendenza apocalittica a considerare “senza precedenti” quello che ci tocca da vicino…, faremmo meglio a sorvegliare le parole che usiamo, soprattutto gli aggettivi…
-          Beh… non sarebbe una cattiva idea! Se insistete con il pessimismo i vostri giovani si convinceranno che non c’è nessuna via di uscita e che non vale la pena impegnarsi, studiare, cercare, sperare… non vorrei che venissero tutti a Bangalore!

venerdì 1 giugno 2012

PESCATORI, PIRATI E MAGÌE DI INTERNET

Temo che Internet cominci a esagerare con le sue magie.
Non basta sapere immediatamente cosa sta accadendo in qualunque parte del mondo, deve esserci qualche misteriosa applicazione che permette anche di conoscere come sono andate effettivamente le cose, ciò che è vero e ciò che è falso, chi ha ragione e chi ha ha torto, chi sono i buoni e chi sono i cattivi... ovviamente tutto in tempo reale.
La mattina di mercoledi 15 febbraio ero a Roma e sono andato normalmente al lavoro; non ero al largo delle coste del Kerala sulla petroliera Enrica Lexie, né a bordo del peschereccio St. Anthony su cui sono stati uccisi Selestian Valentine e Ajesh Pinky. Ero a Roma e quindi come sono andate le cose, semplicemente, non lo so.
Posso ovviamente farmi molte domande (Selestian e Ajesh erano pirati? sono stati uccisi dai marò italiani? hanno avuto un comportamento ostile? i marò si sono limtati a colpi di avvertimento? il fatto è avvenuto in acque internazionali? a chi rispondono due militari su una nave civile? ecc.), ma non sono in grado di darmi risposte.
Anche il mio amico Giuseppe era a Roma, ma probabilmente dispone della misteriosa applicazione a cui accennavo prima perché già nel pomeriggio scriveva su facebook con assoluta certezza che i nostri due coraggiosi marò rischiavano l'arresto solo per aver difeso la nave italiana dall'assalto dei pirati e accusava il governo del Kerala di violare la legge internazionale poiché il fatto era avvenuto fuori delle acque territoriali. Incredibile quante certezze si possano avere stando a diecimila chilometri di distanza!
Ancora più incredibile è però il fatto che nelle stesse ore il mio amico indiano Agraj, anch'egli a Roma, scriveva con altrettanta certezza che i due marò italiani erano cinici assassini di inermi pescatori, era sicuro che il fatto fosse avvenuto in acque indiane e sperava in una condanna esemplare che dimostrasse il superamento di ogni condizionamento neocolonialista. Evidentemente anche Agraj dispone della misteriosa applicazione che consente di sapere subito, senza alcun dubbio, come sono andate le cose, chi ha ragione e chi ha torto, ecc., solo che -forse- l'ha comprata in un altro negozio o ne ha acquistata una versione indiana...
Sono passati più di tre mesi da allora, si sono incrociate istanze e delibere, diplomatici e giudici, risarcimenti e cauzioni, periti e assicuratori, ma come sono andate davvero le cose e dove siano davvero collocate le responsabilità non è ancora per niente chiaro. Né la informatissima BBC (http://www.bbc.co.uk/news/world-asia-india-18263365), né la puntigliosa Reuters (http://www.reuters.com/article/2012/05/30/us-india-italy-crime-idUSBRE84T0LZ20120530) sono in grado di andare oltre una giustapposizione delle diverse versioni.
E' evidente che nessuno ha informato i giudici, i diplomatici e le agenzie internazionali della misteriosa applicazione di cui dispongono Giuseppe e Agraj, perché loro due continuano imperterriti a sostenere le loro tesi non con la serietà di chi argomenta, ma con la sicurezza di chi pontifica. Giuseppe ritiene doveroso "riportare a casa i nostri ragazzi" con qualsiasi mezzo, compresi un blitz delle teste di cuoio in Kerala e l'interruzione dei rapporti diplomatici con l'India, Agraj si dice nauseato dagli italiani e si chiede come avrebbero reagito se due militari indiani avessero ucciso due pescatori di Ponza davanti a San Felice Circeo...
La misteriosa applicazione deve comunque essere assai diffusa, perché Giuseppe e Agraj hanno un sacco di amici e presto scenderanno tutti in piazza a sostenere le rispettive certezze.
C'è ancora qualcuno a cui interessa sapere come stanno realmente le cose, sospendendo il giudizio prima di conoscere i fatti?
Ovviamente se due affermazioni si contraddicono non possono essere entrambe vere, ma potrebbero essere sbagliate entrambe, potrebbero intrecciarsi tra loro ed essere entrambe parzialmente attendibili, potrebbe esserci una terza versione fino ad oggi non emersa... ma ho il sospetto che tutta questa complessità non sia affatto sexy... molto meglio il classico tifo calcistico "curva sud contro curva nord",  l'importante è gridare qualcosa sul palco e chissenefrega di capire...
Forse il problema non è la misteriosa applicazione, ma il rifiuto di accettare che le cose non sempre sono come vorremmo che fossero, non sempre vanno come vorremmo che andassero, non sempre è possibile capirle con la chiarezza che desidereremmo. Le scorciatoie sono tutte infantili, anche se viaggiano su internet.

domenica 22 aprile 2012

I TRE PILASTRI DELLA POLITICA

"Finisce un ventennio breve in cui i partiti emersi dopo la grande crisi di Mani pulite hanno già consumato tutta la loro credibilità polverizzando i tre pilastri della politica: la visione, la concretezza e l’opportunità”, così scriveva pochi giorni fa Luca Di Bartolomei in un suo bell’articolo (“Partiti, inutile far finta di nulla”, su Europa del 20/04/2012).
Tre pilastri, appunto: la visione, la concretezza e l’opportunità.
In altre parole COSA vogliamo fare, COME vogliamo farlo definendo i TEMPI (e la misura) in cui è possibile farlo.

Non è così complicato: anche un buon contadino che vuole piantare patate ragiona così e, se non lo fa, le patate non le avrà.
Eppure siamo riusciti a perderci, a non sapere più cosa vogliamo, a cadere nella trappola di non dirci mai il “come” e a sbagliare regolarmente i tempi, i modi e le alleanze.
Trattiamo la politica come una scienza occulta, roba da iniziati, un miscuglio di riti dall’esito incerto mentre  funziona esattamente come le patate del contadino: cosa, come e quando. Il resto serve solo a non farsi capire.
Per troppo tempo non abbiamo preteso questa chiarezza da chi fa politica ed anche in questa fase -feriti e delusi- stiamo per ricadere nella trappola di sognare improbabili scenari pur di non fare i conti con la realtà, con i numeri e con le alternative possibili.
I giornali, il web, i luoghi comuni e le barzellette si riempiono velocemente di facili slogan che dicono con estrema chiarezza cosa non vogliamo, ci regalano decine di “basta” come caramelle consolatorie e inappellabili “giù le mani da…” come esorcismi scaramantici.
In politica non possiamo più permetterci il lusso di parafrasare Montale “solo questo possiamo dirti oggi, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”: è la ricetta sicura per essere sempre perdenti!

In politica bisogna assolutamente sapere cosa siamo e cosa vogliamo e bisogna anche dirlo con chiarezza se non vogliamo perpetuare il gioco delle tre carte.
Fare politica significa prendere decisioni: ovviamente si può non essere d’accordo con le decisioni prese, ma questo disaccordo diventa “politica” solo se è capace di formulare una decisione alternativa e sostenibile. 
Se non riusciamo ad indicare decisioni e decisori alternativi e credibili non stiamo facendo politica, ma solo aumentando la confusione.
Adesso, più che mai, dobbiamo puntare all’essenziale, abbiamo bisogno di una politica concreta che passa dal cosa, dal come e dal quando, finché non sappiamo dirlo meglio tacere.

sabato 14 aprile 2012

ODDIOLACRISI!

Non tutto quello che ci succede lo scegliamo.
Molto, forse più di quanto siamo disposti ad ammettere, semplicemente ci capita.
Life is what happens to us while we are making other plans” scriveva Allen Saunders, la vita è quella cosa che ci capita mentre siamo occupati a fare progetti .
La bravura non si misura dunque da quello che ci capita, ma da quello che noi facciamo capitare nella situazione che ci troviamo a vivere, quella che -quando non ci piace- chiamiamo crisi.
Cosa diremmo ad uno sciatore che si lamenta dei paletti dello slalom o ad un pilota che si lamenta delle curve della pista ? Che quei paletti e quelle curve non sono errori di tracciato, sono il tracciato stesso,  che la sua bravura sta proprio nel riuscire ad affrontare quei paletti e quelle curve nel modo migliore, al massimo della velocità possibile sfruttando fino in fondo i mezzi di cui dispone senza andare fuori pista.
Non sempre l’etimologia delle parole aiuta a capire la vita, ma quella della parola “crisi” fa eccezione: il verbo greco (krino), da cui la parola nasce, significa “separare”, “scegliere”, “decidere”. Crisi è ogni situazione che ci costringe a scegliere come comportarci, a decidere cosa fare, a inventare un modo per trovare una soluzione.
Quando usiamo la parola “crisi” con il significato di iattura, sventura che non meritavamo, difficoltà da subire passivamente, ci comportiamo come lo sciatore o il pilota che considerano le curve un errore del tracciato.
Ci può capitare un tracciato più facile o più difficile, con più o meno curve (anche perché non conosciamo i tracciati degli altri…), ma comunque non ce lo scegliamo, mentre quello che dobbiamo scegliere è come affrontarlo.
Le “crisi” non sono altro che lo scenario nel quale siamo chiamati a lavorare per costruire nuovi equilibri, i più giusti possibili.  “Lavorare” non significa “invocare” nuovi equilibri…  non basta dire cosa vorremmo, lasciando agli altri l’onere di farlo e a noi il diritto di lamentarci per come lo fanno.
Lavorare significa fare proposte, verificarne la percorribilità, valutarne le conseguenze.. non aspettare le proposte degli altri per impallinarle una dopo l’altra.
Lavorare significa confrontare le proprie proposte con quelle degli altri, trovare compromessi, accettare il migliore possibile… non chiedere la perfezione e battere i piedi perché non c’è.
Lavorare significa analizzare le cause, identificare le responsabilità e definirne i limiti… non sparare sempre nel mucchio perché “tanto sono tutti uguali”, perché “come la metti la metti…”
La “crisi” è il campo in cui dobbiamo giocare la nostra partita. Giochiamola bene: con grinta, con intelligenza, con efficacia. E soprattutto giochiamola, non facciamo solo il tifo.

domenica 4 marzo 2012

LE CASTE, LA LUNA E IL GIOCO DELLE PARTI

Che c’è di più sano che evidenziare un bisogno, rivendicare un diritto, chiedere quello che si ritiene giusto e denunciare quello che si ritiene sbagliato?
Sarebbe mai migliorata la società se i diritti non fossero stati rivendicati e le ingiustizie denunciate? Certamente no.
E allora forza! Rivendichiamo il più possibile, denunciamo tutto quello che non condividiamo, esigiamo tutto quello che riteniamo giusto… se ci convinciamo che la misura di ciò che otterremo dipende unicamente da quello che chiediamo perché non chiedere la luna?
La realtà (e lo sappiamo tutti benissimo da quando abbiamo smesso di scrivere a Babbo Natale) è un po’ diversa. La misura di ciò che otteniamo non dipende solo da ciò che vogliamo e da quanto gridiamo per averlo, ma anche dai rapporti di forza, dalla oggettiva ragionevolezza di cosa chiediamo, dalle risorse esistenti e dalla mediazione possibile tra i diversi interessi e i diversi punti di vista. E’ così per il trenino chiesto a Babbo Natale, è così per gli ammortizzatori sociali, è così per la guerra in Afghanistan, è così per tutto.
Questo non significa che non dobbiamo chiedere, rivendicare e denunciare, ma che possiamo farlo in due modi: da bambini e da adulti. Lo facciamo da bambini quando gridiamo ciò che vogliamo in attesa che chi ci ascolta si faccia carico di riconoscere il nostro diritto e ce lo dia; lo facciamo da adulti quando –oltre a gridare ciò che vogliamo e riteniamo giusto- ci facciamo carico di costruire proposte percorribili, ci diamo un criterio, ci diamo priorità, accettiamo la gradualità delle soluzioni, ci chiediamo quali alternative sono preferibili. Insomma quando non ci limitiamo a dire infantilmente “no”, ma opponiamo proposta a proposta.
Diversamente non solo si ottiene poco, ma c’è il rischio di infilarsi in uno sterile gioco delle parti in cui -allontanandosi dal contenuto- alla fine conta solo la forza.
In questi giorni ho scambiato alcune mail con un amico sul tormentone delle “caste” e sulla grave responsabilità dei media nel fare di ogni erba un fascio. Alla domanda se criticare indiscriminatamente le caste potesse -alla lunga- costituire un pericolo per la democrazia questa è stata la sua risposta: “No e si. E te la spiego subito: no, perché il diritto di pensiero e il diritto di critica (nel rigoroso ordine cui sono enunciati) sono il sale benefico di una democrazia; sì, perché è pericoloso alimentare l’opinione pubblica col convincimento che la classe dirigente di un paese (cioè, per dirla con la corrente casta-mania, la sommatoria delle caste che dirigono un paese) sia composta solo da avidi profittatori, additati come tali sulla base delle retribuzioni, verosimilmente determinate in maniera legalmente corretta. Non è così e non è giusto (è anzi pericoloso) che si pensi così.  Per capire meglio perché è pericoloso che si pensi così, proviamo a domandarci questo: e se il voyerismo economico (figlio pettegolo della trasparenza) non fosse altro che una ben orchestrata operazione di marketing sociale? E se il marketing sociale fosse il prodromo di un ben più pericoloso marketing politico di stampo populista e qualunquista? Ci facciamo veramente male da soli distruggendo la percezione che l’opinione pubblica può avere di una classe dirigente, senza averne una di ricambio. E francamente non ne vedo una di ricambio pronta.
Non so se sia davvero in corso una “ben orchestrata operazione di marketing sociale” ma sono sicuro che screditare per screditare è uno sport stupido, sia nel senso che non richiede particolari abilità, sia nel senso che non produce alcun risultato.
Ovviamente tutto e tutti sono criticabili (soprattutto quando questo fa audience!) e a volte mi chiedo se esista un profilo ideale inattaccabile. Non credo: a san Francesco imputerebbero di certo l’inaffidabilità di chi è lontano dalla"gente", a Napoleone un’eccessiva personalizzazione ed anche su quella ragazza palestinese che ebbe un figlio non si sa bene da chi (poi condannato a morte) ci sarebbe sicuramente molto da dire...
Mi fanno paura il graduale (e accelerato) allontanamento dai contenutila fuga dalla ricerca di un criterio, la critica fine a se stessa.
Visto che in politica il bene assoluto non esiste, ogni volta che si esprime una valutazione bisognerebbe chiedersi "rispetto a che?", "rispetto a chi?", e darsi un realistico metro di giudizio. Non sono follemente innamorato dell’attuale governo, ma pragmaticamente mi chiedo: avrei davvero preferito che la riforma del lavoro la facesse Sacconi e che le relazioni internazionali fossero guidate da Frattini?
Nulla è assoluto, dipende tutto dal criterio che si sceglie: anch’io, in alcune circostanze, riterrei certamente la Carfagna da preferire alla Cancellieri.

domenica 12 febbraio 2012

INDIANI e COWBOYS

Il bello dei film di indiani e cowboys era la chiarezza.
Hanno emozionato la nostra infanzia e contribuito a definire il nostro modo di giudicare: tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra. Idee chiare, complicazioni zero.
Neanche la trama era importante, che fosse un furto di cavalli, l’accesso alla sorgente o il passaggio verso ovest, l’importante era che i buoni vincessero (e succedeva sempre).
Non c’era molto da capire, bastava schierarsi perché la storia diventasse chiara e avesse un senso.
Sono convinto ancora oggi che la storia -quella di ogni giorno- acquista un senso solo se ci si schiera, ma non è vero (purtroppo) che basta schierarsi perché essa diventi chiara. Penso anzi che sia esattamente il contrario, solo quando la storia ci è chiara, quando abbiamo capito i termini della questione, possiamo consapevolmente schierarci e “darle un senso”.
Ma non siamo nei film di indiani e cowboys e non è (quasi) mai vero che i buoni e il bene stanno tutti da una parte e i cattivi e il male dall’altra. Non abbiamo nemmeno gli aiutini della sceneggiatura, tipo i buoni belli e i cattivi brutti o musica cupa quando parlano i cattivi e piacevole e distesa quando parlano i buoni… oggi la sceneggiatura è taroccata e fuorviante: lo hanno capito tutti che la confezione è più importante del contenuto e tutti si danno da fare per confonderci le idee.
Come fare allora per capire quali sono i buoni e quali sono i cattivi?
Mi sembra prevalgano due posture diametralmente opposte: quella di chi cerca disperatamente di capire, approfondire, entrare nel merito per poter decidere di volta in volta da che parte stare e quella di chi non riesce a dimenticare i film degli indiani e si schiera subito, prima ancora di capire, anzi spesso “invece” di capire.
Il guaio è che le questioni su cui schierarsi sono tutte maledettamente complesse, forse quelle semplici sono finite o forse ci sembrano semplici quelle del passato perché con la distanza non si apprezzano i dettagli.
Non sempre la complessità è rapidamente riducibile a un si o no (forse è anche per questo che non mi sono particolarmente simpatici i referendum), il fascino cristallino del bianco/nero deve fare i conti con i grigi, la certezza delle convinzioni con i “dipende”, la fretta di risolvere con la gradualità delle soluzioni.
Se è vero che la complessità può diventare una trappola che, a forza di distinguo, ci impedisce di decidere, è vero anche che chi ha già deciso prima ancora di capire vedrà solo le ragioni di una parte e non aiuterà affatto a fare chiarezza.
Insomma la testa prima della pancia o basta la pancia?
L’analisi ragionata degli scenari o la carica di Fort Apache?
Neanche questa scelta, in fondo, è così radicale: si può ragionare e cercare di capire senza trasformare l’analisi in alibi per evitare di schierarsi e ci si può schierare con passione senza pretendere di avere sempre ragione perché la bandiera si ama e basta.
Tra “Ombre Rosse” e “Quark” le mediazioni sono possibili.

domenica 22 gennaio 2012

SENZA PRECEDENTI

Ci piace pensare che quello che ci accade, che stiamo vivendo e gli eventi di cui siamo testimoni siano speciali, unici, mai accaduti prima. Ci piace così, ci fa sentire importanti, probabilmente ci tranquillizza circa la nostra unicità.
Del fatto  che si tratti di eventi senza precedenti sembrano molto convinti soprattutto i giornalisti: mai un’estate così calda, una nevicata così abbondante, un attentato così grave, un gol così bello, uno spread così alto. Apprendiamo, con stucchevole ripetitività, che questa guerra, questa stagione o questa crisi economica sono sicuramente senza precedenti, così come le conseguenze che -dato che non ci sono precedenti(!)- non riusciamo neppure ad immaginare.
Cosa avrebbero scritto questi stessi giornalisti se –tanto per fare qualche esempio- avessero dovuto commentare la peste del 1348 in tutta Europa, la guerra dei trent’anni, il terremoto di Lisbona del 1755, il genocidio armeno, la crisi economica del 1929 o il processo di Norimberga? Ovviamente che si trattava di eventi senza precedenti.
Letteralmente ogni evento, anche il tramonto di oggi, è “senza precedenti”, nel senso che è unico e non ripetibile. Ovviamente l’accezione che si vuol dare all’espressione è un’altra, è sottolineare che non si tratta di sviluppi previsti e ordinari, ma imprevisti e fuori della norma. Ma, appunto, c’è una norma nella storia? E siamo sicuri che quell’evento –pur nella sua “eccezionalità”- non si sia mai verificato? “Mai successo a memoria d’uomo”: un po’ corto come metro!
Probabilmente l’esigenza che sta dietro questo modo di parlare è un’altra: abbiamo bisogno di dare un nome alla paura che la nostra storia personale e sociale sia troppo “normale”, che i problemi con cui dobbiamo fare i conti siano gli stessi con cui si sono confrontati quanti ci hanno preceduto, come se questa ammissione li svalutasse, li rendesse poco interessanti e allora ci affanniamo a spiegare che non è così, che noi stiamo vivendo eventi epocali, che i nostri problemi sono straordinari, che sono insomma “senza precedenti”.
Perdiamo così di vista una evidenza elementare: che a rendere davvero senza precedenti questa storia, questi anni e questi eventi è il fatto che a viverli siamo noi (che non c’eravamo quando li vivevano gli altri), è il fatto che sono i “nostri” anni, sono i “nostri” problemi e adesso la responsabilità di affrontarli e risolverli è la “nostra”.
Ma forse è proprio di questo che abbiamo paura, forse quando bisogna affrontare il drago e si teme di non farcela è meglio cominciare a dire che si tratta di un drago senza precedenti… chi potrà stupirsi se non lo uccidiamo?
Siamo proprio sicuri che confrontarsi con spread e precarietà sia più duro che misurarsi con carestie e invasioni? Eppure chi ci ha preceduto ha dovuto farlo.
Questa è la nostra storia. Ora tocca a noi rimboccarci le maniche: senza lagne e senza precedenti.


sabato 14 gennaio 2012

EMOZIONI MAROCCHINE

E' sempre istruttivo immergersi per un po' in una cultura diversa dalla propria.
Aiuta a capire meglio le nostre abitudini, a definirne i confini e ad interrogarci sul loro senso.
Confrontandoci -senza pregiudizi- con stili di vita e valori diversi dai nostri è possibile cogliere la relatività di norme e comportamenti che altrimenti saremmo tentati di considerare assoluti.
Quest'anno siamo andati una settimana in Marocco. Ovviamente abbiamo visto solo il Marocco dei turisti, quello delle brulicanti medine multicolori, degli infiniti mercatini a labirinto, delle raffinate moschee (di fronte a quella immensa di Casablanca ho capito che effetto che deve fare San Pietro ai giapponesi !).
Sappiamo benissimo che quello che abbiamo visto non è tutto il Marocco e così come un turista che visita il Colosseo, Piazza Navona e il Quirinale non può dire di conoscere Roma (che ne sa lui di Corviale, Malagrotta e gli ingorghi sull'olimpica?) o un viaggiatore che parla con un tassista nervoso, un cameriere stanco e un commerciante furbo non può dire di conoscere i romani, non possiamo certo affermare di conoscere il Marocco e i marocchini, tuttavia la breve "immersione" ha avuto il suo effetto: abbiamo intuito che 34 milioni di persone, un terzo delle quali sotto i 14 anni, in un paese bello e fertile grande il doppio dell'Italia hanno voglia di dire la loro e i numeri per dirla, soprattutto nei prossimi decenni.
Ovviamente nessuno si aspettava di incontrare cavalieri berberi galoppare nel deserto (tranne che negli spettacolini kitsch per turisti), ma quando ci è sembrato strano vedere vecchi caracollare su un asino mentre parlano al cellulare e donne velate navigare velocemente su internet ci siamo resi conto di quanto la nostra conoscenza degli altri sia condizionata dagli stereotipi che -ottuse semplificazioni!- ci impediscono di vedere e di capire.
Ogni paese islamico ci ripropone una visione del mondo e del tempo per noi così difficile da capire (ci sembra sempre che appartenga al passato, ovviamente al "nostro" visto che ci consideriamo la misura del mondo) e troppo facile da etichettare. Se, come dice Carlo M. Martini, “le religioni non sono nei libri, ma nel vissuto della gente di tutto il mondo” forse per capirle dovremmo smettere di leggere editoriali scritti in un attico dei Parioli e andare conoscere da vicino chi ogni giorno interpreta con quegli occhi la sua vita e la sua storia, ascoltando senza pretendere di saperne per forza più di lui.
Poco più di tre ore di aereo per ritrovarsi in un tempo diverso dal nostro, non un'altra epoca ma un tempo più "dilatato", un tempo che sembra calibrarsi più sulle esigenze fondamentali che sui promemoria del blackberry.
Siamo tornati portando negli occhi i colori pastello del souk di Marrakech, nelle orecchie il muezzin che proclama cinque volte al giorno che Allah è grande e nell'anima la conferma che il mondo è più plurale di quanto crediamo.