sabato 29 settembre 2012

NUOVO DI ZECCA?

- Innovazione, nuovo, novità ! Anzi basta con le vecchie parole, proviamo con nuovitudine, nuoverìa, innovismo…  insomma basta con le solite facce, le solite promesse, i soliti discorsi…
- Vorresti nuove facce, nuove promesse e nuovi discorsi ?
- Non solo! Bisogna proprio cambiare aria, musica, registro... insomma voltare pagina! Mi sono spiegato?
- No, non ti sei spiegato. Sono tutti modi di dire, perfetti per esprimere lo stato d’animo ma assolutamente inutili per definire contenuti
- Questo è il mio stato d’animo!
- Questo l’avevo capito. Quello che non ho capito è cos’è che vuoi di nuovo.
- Cominciamo con le facce!
- Facce qualsiasi? Basta che non siano quelle di prima? Anche se dietro la faccia nuova ci fossero le stesse  idee della faccia vecchia, con gli stessi vizi e le stesse abitudini?
- D’accordo, cambiare solo le facce non basta, servono anche idee nuove, ma queste idee nuove non sarebbero credibili abbinate alle facce vecchie, ecco perché servono nuove anche le facce
- Dunque le facce nuove servono solo a rendere credibili idee nuove. Senza queste, le facce nuove non servirebbero. E queste idee nuove che cosa dovrebbero riguardare?
- Tutto. Il tipo di società, l’economia, il rapporto tra cittadini e politica, il welfare, la pubblica amministrazione, la scuola, il lavoro…
- …nient’altro? Questa è roba da messia! Ognuna di queste parole si può declinare in mille modi. Che significa una nuova economia?  Non è mica una cosa che si può cambiare con un clic… non possiamo mica rifarci in casa le regole come se fossimo soli al mondo; la nostra economia è un pezzo dell’economia mondiale;  e non è solo questione di euro o non euro, spread o non spread, è questione di esportazioni e importazioni, di rapporto con i paesi che possiedono il nostro debito pubblico (senza rinnovare il quale non riusciremmo a pagare neppure le pensioni e gli stipendi agli insegnanti e ai poliziotti). Cos’è che vorresti “nuovo” più precisamente?
- Beh, ad esempio vorrei nuove le regole dei contratti di lavoro. Vorrei che non esistessero più i contratti “tipici” e quelli “atipici”: vorrei una sola forma per tutti, semplice e comprensibile anche ai non addetti, una forma in cui la differenza tra una busta paga e un'altra riguardi solo quantità del compenso, non le coperture assicurative e la previdenza!
- Non è una cosa facile, ma almeno questa è una cosa definita. Una novità non da poco che potrebbe essere un obiettivo perseguibile. Un’altra cosa nuova “definita”?
- Qualcosa sui requisiti di chi ci governa: fedina penale pulita e una sorta di “patente” che garantisca un adeguato livello culturale e di competenza. Nessuno può garantire l’onestà futura, ma almeno quella passata non dovrebbe essere difficile…
- Questa, oltre ad essere precisa, non è neppure difficile da attuare. Una “novità” davvero a portata di mano.
- Comincio a prenderci gusto. Forse il lavoro da fare è proprio questo “spacchettamento”: smontare i capitoli grandi nei singoli pezzi che li compongono e identificare le “novità” che vogliamo pezzo per pezzo…
- …in questo modo sarà più facile sia indicare ciò che vogliamo, sia verificare se la “novità” ci sarà o non sia solo “una cosa vecchia con il vestito nuovo”, come cantava Guccini.

domenica 16 settembre 2012

AMELIE E IL PROGRAMMA ELETTORALE

Chi  ha visto il film ricorderà certamente la prima, efficacissima, sequenza de “Il favoloso mondo di Amélie” (2001, regia di Jean-Pierre Jeunet). Il regista presenta i suoi personaggi semplicemente elencando ciò che a loro “piace” e ciò che a loro “non piace”. Ad Amélie, ad esempio,  piace tuffare la mano in un sacco di legumi o rompere la crosta della crème brûlée  con la punta del cucchiaino, mentre non piacciono i vecchi film americani in cui il guidatore non guarda la strada (se avete 2,37 minuti liberi godetevi l’inizio del filmhttp://www.youtube.com/watch?v=R5ATnTvqNLQ).
Ci è sempre molto più facile dire cosa ci piace e cosa non ci piace che dire cosa vorremmo fare e come.
La rudimentale opposizione “non mi piace- mi piace” si è recentemente evoluta (non di molto per la verità!) nell’opposizione “non sopporto…-ci vorrebbe…”.  Non sopportiamo i politici corrotti, gli economisti saccenti, i giornalisti prezzolati, la crisi, lo spread, gli aumenti della benzina, gli speculatori, la casta, il caro-libri, gli evasori, le tasse, i ticket, ecc.; quello che invece ci vorrebbe è un governo che governi, una maggiore equità fiscale, politiche per lo sviluppo, la diminuzione delle tasse, una seria lotta all’evasione, far pagare quelli che non pagano mai, ospedali che funzionino, scuole che funzionino, meno sprechi, più qualità della vita, lavoro per i giovani, ecc. .
Niente di strano, chi non vorrebbe quello che “ci vorrebbe” e chi apprezzerebbe quello che “non sopportiamo”?
Negli ultimi mesi c’è da registrare un progressivo approfondimento del solco che divide i nostri incubi (non sopporto) dai nostri desideri (ci vorrebbe). Non avendo più molto da aggiungere alla lista di ciò che non sopportiamo e a quella di ciò che ci vorrebbe, ci siamo scatenati sui verbi: “non sopporto” (che aveva almeno il pregio di riferire un nostro sentimento) si è nervosamente trasformato in “fanno schifo”, “hanno rotto”, “non se ne può più”, fino ad arrivare al grido “ora basta!” che sembra chiudere definitivamente la partita. (Ma solo quella dei vocaboli, purtroppo, anche se molti sembrano ancora credere infantilmente che basti pronunciare la formula e battere un pugno sul tavolo per fare la magia). Anche il “ci vorrebbe” ha avuto la sua evoluzione perdendo la discrezione che gli derivava dal condizionale per diventare “bisogna assolutamente”, “è ora di”, “dobbiamo pretendere”.
Grazie a questa accelerazione lessicale diventa discretamente facile mettere a punto un programma elettorale vincente. Ecco le semplici istruzioni:
  1. fare un elenco accurato di ciò che gli elettori “non sopportano”, eventualmente caratterizzandolo in caso di discorsi a gruppi definiti (disoccupazione e ricambio generazionale se si parla a giovani, pensioni ritardate e valorizzazione dell’esperienza se si parla a vecchi e così via);
  2. immedesimarsi con l’esasperazione di chi “non sopporta” calcando la mano con esempi dettagliati a tinte forti, citando fatti di cronaca ed evidenziando la vicinanza con il problema (“proprio l’altro giorno un mio amico mi diceva…”);
  3. alludere continuamente ai responsabili di questa situazione insostenibile (senza necessariamente fare nomi e cognomi, meglio un generico “loro”, “questi signori”, i “politici”, ecc.) lasciando intendere  di essere di un’altra razza e che dopo le elezioni “si cambierà musica” (ovviamente con voi);
  4. descrivere la nuova “musica” utilizzando a piene mani l’elenco dei “ci vorrebbe” senza (ovviamente) entrare nel merito del come intendete farlo e di come riuscirete a rendere sostenibili scenari tra loro evidentemente non compatibili.
Ecco pronto il vostro programma elettorale vincente! Manca solo una accettabile confezione comunicativa e un paio di slogan. Guarnire con qualche testimonial di successo e servire caldo.

Forse, se c’è una cosa di cui siamo davvero stanchi è la banalità.
Non ci servono taumaturghi e uomini della provvidenza: vorremmo programmi che entrino nel merito dei problemi, che dicano in concreto cosa intendono fare e soprattutto come (confrontandosi con gli altri “come”), che non ci illudano di essere magicamente risolutivi, che non nascondano le contraddizioni, che sulle situazioni da affrontare dicano la verità (anche difficile da accettare) preferendola alle gradevoli bugie e alle pietose omissioni.
Senza promettere la luna: ce l’abbiamo già ed è gratis.