Per chi e per cosa trepidare?
Per la situazione esplosiva in Venezuela o per come andrà
Sanremo? Preoccuparsi per i bambini siriani uccisi dal gelo nei campi profughi
o per i barboni uccisi dallo stesso gelo sui marciapiedi di Roma? Per la
recessione che mette a rischio lavoro, risparmi e pensioni o per la fine del
trattato sulle armi nucleari tra americani e russi che ci riporta indietro all’incubo
della bomba... non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Ovviamente ognuno è libero di trepidare per quello che gli
pare scegliendo ciò che più gli sta a cuore e nessuno ha il diritto di
giudicare. E così non mi stupisco che per la gattara sotto casa mia la salute dei
suoi assistiti sia più importante della recessione economica o che un ragazzo disoccupato
trepidi più per l’esito del suo colloquio di lavoro che per la proliferazione
delle armi nucleari.
E’ normale che ciò che ci tocca da vicino ci faccia
trepidare più di ciò che è lontano. Eppure è proprio nella possibilità di
preoccuparci per quello che non ci riguarda «direttamente» che si annida la
nostra umanità più profonda. Tutto sta in quanto è ampio e sensibile quel «direttamente».
Se lo riduciamo fino a “direttamente me stesso”, allora anche se mia moglie o i
miei figli stanno soffrendo o corrono un grave pericolo posso dire che la cosa
non mi riguarda. Ma come? Non mi riguarda la vita dei miei cari? Sarei giudicato
un mostro. E perché? Perché tutti immaginano che pur non riguardando il
pericolo “direttamente me stesso”, la relazione di affetto mi spinga ad includere
in quel «direttamente» anche i miei cari. E se chi soffre o corre pericolo non
è nella mia relazione di affetto? Perché dovrei chiamare i soccorsi se qualcuno
che non conosco viene colto da malore o resta coinvolto in un incidente? Perché mai dovrei preoccuparmi per la sua
sorte? Eppure c’è addirittura una legge che mi impone di farlo! Questo perché
nelle radici delle regole che gli uomini si sono dati per vivere insieme senza
sopraffarsi reciprocamente (affidando il diritto alla forza) c’è un principio
di reciproca solidarietà che tutela tutti: oggi hai un malore tu, domani potrei
averlo io. Un sorta di polizza di mutuo soccorso senza la quale saremmo tutti
più fragili e più esposti.
Ma la misura della nostra umanità non si esaurisce certo
nell’evitare l’omissione di soccorso, essa si sviluppa nella capacità di estendere
-né per calcolo, né per buonismo- i confini del «mi riguarda direttamente» e percepire
che la sorte dei barboni romani e dei bambini siriani che muoiono di freddo ha in
qualche modo a che fare «direttamente» con me. Non mi riguarda sul piano della
responsabilità, mi riguarda perché voglio che mi riguardi, perché mi sento
coinvolto come soggetto della stessa comunità umana e anche per quel principio
di mutuo soccorso in cui si radica la vita sociale di ogni comunità. Diversamente
è solo cronaca, cronaca che non dovrebbe neppure incuriosirmi se non per un voyerismo
di cattivo gusto.
Se è vero che ognuno è libero di trepidare per quello che gli
sembri ne valga la pena, è vero anche che le questioni per cui scegliamo di trepidare
dicono molto di noi, delle cose a cui attribuiamo importanza, di quanto sia larga
la nostra accezione del “mi riguarda/non mi riguarda” e della nostra capacità di
sentirci parte viva della società e della storia. Chiediti per che trepidi (davvero)
e saprai chi sei.