lunedì 23 luglio 2018

UNIRE I PUNTINI





Perché è difficile che i mongoli vadano in vacanza al mare e perché i barconi non approdano in Finlandia invece che in Sicilia? Già, perché?

Qualche anno fa la redazione di National Geographic chiese a un campione di giovani americani di indicare dove si trovasse l’Iraq su una mappa geografica: il 63% non seppe indicarlo neppure con approssimazione, e questo malgrado molti dei loro coetanei fossero in quel periodo impegnati in guerra proprio in quel paese.

Molti ritengono la conoscenza della geografia un accessorio superfluo, utile solo per i quiz in tv e per i cruciverba. Ma non è così.

La geografia permette di capire la proporzione tra le grandezze, il senso delle distanze, i legami possibili e quelli improbabili, le rotte delle migrazioni e dei commerci. Non si tratta di studiare noiose tabelle e complicati grafici, non serve imparare a memoria gli affluenti di destra del Po: quello che serve è guardare con attenzione e sana curiosità cartine, planisferi e mappamondi, è immaginare le persone che ci vivono, è fingere di essere là, poi qua, poi più a nord…

Viziati da googlemaps, pensiamo che avere il mondo in tasca significhi trovare la pizzeria più vicina alla spiaggia o guardare sullo smartphone a che punto siamo dell’autostrada… ed invece significa collocarsi nello spazio e nel tempo, significa poter indicare un punto e dire consapevolmente “io sono qui”, oppure “qui fa molto freddo” o “qui stanno combattendo una guerra”…, significa poter esclamare “quanto è grande la Russia!” o chiedersi “perché non trovo il Kurdistan?” e andare  a cercare la risposta su internet…

Conoscere la geografia è conoscere la scena del mondo in cui viviamo, evitare osservazioni insensate e –soprattutto- smettere di credersi l’ombelico del mondo e di misurare i problemi con il metro del nostro cortile.

John Fahey, il Ceo di National Geographic, l’ha definita così: «La conoscenza geografica e ciò che ci permette di legare persone, luoghi ed eventi: è così che diamo senso al mondo»; in altre parole la capacità di “unire i puntini” per capire il disegno di cui facciamo parte. E no, non è poco.

venerdì 6 luglio 2018

"CREARE" LAVORO?


Che la mancanza di lavoro sia uno dei problemi più scottanti di questo periodo non è una novità. Se vogliamo che il nostro tasso di occupazione sia comparabile a quello medio degli altri Paesi avanzati dobbiamo creare nuovi posti di lavoro ed è quello che -ad ogni tornata elettorale- tutti i partiti promettono di fare, guardandosi bene dall'indicare come intendono farlo.
Mi sono allora chiesto: ma come si fa a “creare” lavoro?
C’è qualche formula magica che abbiamo dimenticato? Perché in alcuni paesi il lavoro c’è e in altri no? Perché e come si sposta il lavoro nel mondo? E’ possibile fare in modo che il lavoro si sposti dove siamo noi o (come è stato per secoli ed è ancora per molti) bisogna accettare l’idea che siamo noi a doverci spostare dove c’è il lavoro?

Sarò probabilmente banale, ma penso che il lavoro si “crea” solo quando qualcuno è disposto a (e può) pagare qualcun altro per avere in cambio beni o servizi che prima comprava altrove o che non comprava affatto.
Assumere personale che non produce beni e servizi vendibili e competitivi (o valorizzabili in migliore efficienza) non è creare lavoro, ma aumentare la spesa.
Investire in opere pubbliche per “far ripartire il paese” è una ricetta che poteva andar bene nei ’50-’60 quando contemporaneamente la produttività era alta e i redditi crescevano, oggi è un serpente che si morde la coda: l’investimento necessario alzerebbe ulteriormente il debito e con esso gli interessi per finanziarlo in misura prevedibilmente maggiore del beneficio atteso. Anche il mantra “far ripartire i consumi” appare attuale e significativo quanto “auguri e figli maschi”… come possono ripartire i consumi se i redditi sono bassi e se la maggior parte delle cose che consumiamo ci arriva a costi imbattibili da quella parte di mondo che le produce al nostro posto?
Le condizioni del lavoro e le norme che lo regolano sono certamente importanti ed eticamente discriminanti, ma è così prioritario discettare di stabilità e garanzie (per pochi e tutelati) quando il lavoro non c’è per molti (e soprattutto non c’è per i giovani)?
Ovviamente non ho ricette magiche per rompere l’incantesimo recessivo e “far ripartire il paese” (volentieri le metterei a disposizione del mago di turno!), ma sospetto che non ce l’abbiano neppure quelli che -per mestiere- dovrebbero averle…

Temo due cose:
1) che quanto il buon senso suggerirebbe di fare: selezionare gli ambiti di produzione in cui possiamo ragionevolmente essere competitivi, contenere i costi, stimolare l’autoimprenditoria (PMI) sfoltendo gli adempimenti infiniti e paralizzanti, tagliare i privilegi (non solo quelli spettacolari di pochi, ma anche quelli non spettacolari di molti) non sia molto appetibile per chi è perennemente in cerca di consenso e quindi si finisca per non fare nemmeno quel poco che si potrebbe;
2) che nessun politico avrà mai l’umiltà –meglio il realismo!- di ammettere che tornare ai livelli di produttività, di benessere, di occupazione, di consumi (e di anche di cazzeggio) che ci siamo potuti permettere per diversi decenni (di cui qualcuno di troppo) semplicemente non è possibile. Non è questione di “crisi”, è questione di una diversa distribuzione del lavoro e della ricchezza nel mondo, di diversi equilibri non più reversibili.
Spero che il realismo alla fine la spunti sulla demagogia e –aprendo gli occhi sulla situazione come è e non come vorremmo che fosse- ci giochiamo seriamente le carte che abbiamo (e non sono poche) smettendola di rimpiangere le carte che avevamo e che non abbiamo più.

Sapere da dove si parte non risolve i problemi, ma è condizione indispensabile per affrontarli con concretezza e determinazione.
Chi ha visto il bellissimo film “Pane e cioccolata” (1973) di Franco Brusati, non può non ricordare il discorso che Giovanni Garofoli, emigrato italiano in svizzera interpretato da Nino Manfredi, fa agli altri immigrati nelle baracche in cui vivono: “Non siamo venuti qua per bisogno, perché -grazie a Dio- a casa di bisogno ce ne abbiamo tanto”.
Ecco: quella generazione di immigrati –senza nascondersi la povertà da cui partiva- è stata capace di costruire la brillante economia del dopoguerra che ha dato lavoro ai nostri genitori e di cui noi godiamo ancora i benefici.
Non sentiamoci nobili decaduti defraudati di diritti che consideravamo irreversibili; sentiamoci figli fortunati che hanno fatto un bel tratto in discesa e a cui ora tocca pedalare perché è ricominciata la salita. (E non è detto che sia una brutta notizia).



venerdì 15 giugno 2018

PADRI

Ogni anno più di duecentomila giovani italiani vanno all’estero a cercare un lavoro migliore di quello che potrebbero (forse) trovare in Italia. Sono duecentomila migranti economici e tra loro ci sono due dei miei figli che, dunque, si sono comportati esattamente come i giovani senegalesi o nigeriani che vengono in Italia a cercare un lavoro migliore di quello che potrebbero (forse) trovare nel loro paese.
I miei figli hanno potuto affrontare le difficoltà e la solitudine senza correre rischi seri: non hanno dovuto attraversare deserti, pagare scafisti, nascondersi per evitare di essere arrestati. Hanno preso un aereo con un passaporto in tasca e hanno avuto la possibilità di trovare un lavoro “in regola” nei paesi in cui sono andati. Ovviamente hanno dovuto dimostrare di meritare il lavoro che volevano e accettarlo alle condizioni che il mercato offriva, ma nessuno li ha costretti a cercarsi un caporale e pagare il pizzo, nessuno li ha ricattati perché stranieri o criminalizzati perché rubavano il lavoro ad altri. Per fortuna non hanno incontrato ministri convinti di scrivere la storia comportandosi da bulli di periferia, né leggi impossibili da rispettare fatte solo per spingerti verso l’illegalità.
Mi dispiace un po’ non averli vicini, ma non sono preoccupato per loro e sono contento che possano costruire la loro vita nel modo che hanno scelto.
Sono molto più fortunato di tanti papà senegalesi o nigeriani che aspettano una telefonata per sapere se i loro figli ce la stanno facendo.

martedì 12 giugno 2018

ALZARE LA VOCE PAGA ?




Alzare la voce paga” solo fino a che non incontri qualcuno che ha la voce più forte di te.
Alzare la voce è la strategia dei bulli, quelli che oggi si vantano di aver vinto con i deboli e domani -con i forti- invocheranno i diritti che con arroganza hanno violato.
Non è bravo chi risolve i problemi alzando la voce, è bravo chi li risolve trovando un criterio condiviso, senza fare a spallate, a chi urla di più, a chi ce l’ha più duro.
Alzare la voce non ha mai risolto nulla, educato nessuno, costruito alcunché.

Alzare la voce è sintomo di debolezza e di incapacità.













domenica 3 giugno 2018

SENZA PAROLE SIAMO PIU' POVERI E PIU' SOLI

Se c’è qualcosa che mi preoccupa ancora di più degli orientamenti politici che si vanno affermando è la progressiva e inarrestabile perdita di significato delle parole.
Se posso fare un’affermazione con un significato univoco e primario (“voglio”, “rifiuto”, “concordo”, “dissento”…) e poco dopo affermare il contrario senza sentire il bisogno di rendere conto (a me stesso innanzitutto!) del contrasto inconciliabile tra le due, significa che le parole non “significano” più il concetto a cui rimandano, hanno solo una funzione emozionale che dura appena il tempo di pronunciarle e nulla più. Non rimandano più a niente, non c’è più un piano di significato di cui esse sono il segno. Suoni inutili e ambigui che non servono più a nulla.
E senza parole del cui significato possiamo fidarci non c’è modo di elaborare un pensiero complesso, di spiegarsi, di comunicare compiutamente. Senza parole “sicure” diventiamo progressivamente più poveri e più soli, e non basterà una tornata elettorale per restituire loro senso e funzione. Stiamo dilapidando un capitale prezioso. Che tristezza.