sabato 22 febbraio 2014

COSA, COME, PERCHE'

Per molti (troppi) anni sono stato convinto che i “perché” fossero più importanti dei “cosa” e dei “come”.
I valori -pensavo- sono la cosa più importante: sono  i valori a spingerti ad impegnarti, a dare senso a quello che fai.
Il cosa e il come -pensavo- vengono dopo e poi se il cosa non funziona e il come è sopra le righe…  ci sono sempre i valori a giustificare tutto, perché (si sa) i valori non si discutono (nei valori si crede), i valori sono perfetti (per definizione), i valori assolvono (in perfetta buona fede), i valori aggregano (noi che crediamo in…, noi che siamo stufi di…, noi che sogniamo un mondo in cui…), i valori non sono difficili da condividere (non costa niente, basta “ritrovarcisi”…).
Ora la penso diversamente.
Penso che il cosa e il come vengano prima.  
Penso che la denuncia di quello che non funziona e l’analisi dei problemi fine a se stessa siano esercizi tanto gratificanti quanto inutili se non si ha la capacità di proporre soluzioni concrete (non gesti simbolici!) fatte di azioni sostenibili e articolate la cui efficacia sia almeno credibile. Affermare che riducendo l’evasione fiscale si renderebbero disponibili risorse preziose e poi non saper indicare come fare per ridurla è ridicolo come affermare che se non ci fossero le malattie vivremmo tutti meglio.
Il come non è l’ultimo dei dettagli: è la prima delle questioni.
Se non so dire come, è meglio che sto zitto: i predicatori ci avanzano.
Se pretendo che il mio come sia il migliore solo perché è il mio, senza passare dal dialogo e dal consenso, sto evitando di confrontarmi con la realtà e quindi non sono credibile.
Se il mio come passa per la ghigliottina e la negazione degli altri ho il sospetto che non sia figlio di un’analisi ragionata, ma di una rabbia covata. E non servirà a molto.
Penso che il cosa e il come vengano prima perché sono la garanzia della concretezza del mio pensiero.
perché mi interessano ancora, ma solo perché “finali”,  non “causali”, li considero valori di arrivo, un lusso che mi posso guadagnare solo attraverso ragionevoli “cosa” e credibili “come”.

domenica 9 febbraio 2014

TANTO PER FARSI UN'IDEA

Si fa sempre molta confusione quando si parla di stipendio e di guadagno. Spesso la confusione tra lordo, netto, costo ed altre diavolerie, finisce per alimentare convinzioni sbagliate e sensi di frustrazione.
Quando parliamo di stipendio, ci riferiamo al “netto” che va in tasca al dipendente, al “lordo” della sua paga o al “costo” per l’azienda? Sono tre cose molto, ma molto diverse!
Troppo spesso liquidata come “tecnica”, è una questione che riguarda la sostanza del lavoro.
Provo a spiegare la faccenda (cercando di non farla troppo complicata) con un esempio.
Se la mia busta paga “pulita” è di 1.500 euro al mese e le mie mensilità sono 13, alla fine dell’anno avrò guadagnato “netti” 19.500 euro.  Di tutto il resto -molti dicono- “non so e non voglio sapere”. 
Così, tanto per avere un’idea, per avere un netto di 19.500 euro, bisogna che il mio “lordo” sia di circa 31.000, di cui 9.000 serviranno a pagare le mie tasse e 2.500 a pagare i miei contributi INPS, ecco perché me ne restano solo 19.500. Dunque a me “sembra” che il mio guadagno sia di 19.500, ma il mio stipendio pieno è di 31.000.
E non è finita. A questo punto l’azienda per cui lavoro deve aggiungere ai contributi e alle tasse che mi ha trattenuto la parte a suo carico (INPS e INAIL) che fanno più o meno altri 8.500 euro, pagare le tasse regionali (IRAP) altri 1.500 euro e infine accantonare la mia quota di liquidazione (TFR) 2.500 euro: totale finale 43.500. Questo è il mio costo totale… anche se a me entrano solo i 19.500 netti (1.500 al mese).
Riassumendo: se in un anno io “guadagno” 19.500, il mio “stipendio” è 31.000 e il mio “costo” è 43.500, cioè ben più del doppio di quello che “guadagno”!
(Ho un po’ arrotondato le percentuali, ma la sostanza è questa).

Quando leggo sul giornale che Tizio “guadagna” 100 mentre Caio “guadagna” 200, vorrei capire se 100 è quello che guadagna, quello che è il suo stipendio lordo o quello che costa in totale… c’è davvero una grande differenza! Insomma se guadagno i miei 1.500 euro al mese e un giornale scrivesse che guadagno 43.500 euro l’anno, mi scoccerebbe se chi legge si facesse l’idea che ogni mese mi metto in tasca 3.625 euro (cioè 43.500 diviso 12) !

Naturalmente tutto questo non c’entra niente col fatto che il mio stipendio sia giusto o no.
Sarebbe interessante conoscere i criteri in base ai quali riteniamo “giusta”, “troppo alta” o “troppo bassa” la retribuzione di un lavoro. Non sono poche le variabili di cui tenere conto: la competenza che occorre per farlo, la responsabilità che comporta, la fatica che richiede, il tempo che impegna, i rischi connessi…. Non è facile valutare, dipende dalla combinazione delle variabili e dal peso che vogliamo dare a ciascuna di esse: un lavoro potrebbe richiedere molta competenza e comportare poca responsabilità o viceversa, poca fatica e tanto rischio o il contrario e così via. Cosa è giusto pagare di più? la responsabilità? la fatica? la durata? il disagio? il rischio? la competenza? la creatività?
Quale che sia il criterio che consideriamo più giusto, la realtà è molto più pragmatica: non è ciò che sarebbe (o ci sembra) essere giusto a definire il compenso di un lavoro, ma semplicemente il punto di equilibrio tra quante persone sono disposte a farlo e a quante persone serve che sia fatto.
Se sono l’unico idraulico in un paese rimasto isolato il mio lavoro sara molto richiesto e ben pagato, se siamo dieci idraulici il mio lavoro varrà molto meno, se sono l’unico idraulico in un villaggio africano senza acqua, non interesso a nessuno.
Certo, tutto questo se uno il lavoro ce l’ha. Ma questa è un’altra storia.