lunedì 19 dicembre 2011

CRONACHE DAL LAMENTOSTAN

Nel paese tutti si lamentavano dei politici e della politica.
I partiti litigavano in continuazione, facevano coalizioni elettorali per rimetterle in discussione subito dopo le elezioni e ogni decisione naufragava nel mare dei “però” e dei “ma anche”.
Il governo era in difficoltà: “Frammentato -dicevano tutti-questo non è un governo, è un pollaio dove ogni gallo vuole cantare più forte dell’altro. Il leader è debole. Non durerà”.
E infatti non durò.
Nel paese tutti si lamentavano dei politici e della politica.
Tornarono a votare e questa volta il governo era forte, anzi fortissimo, la maggioranza in parlamento schiacciante, il leader indiscusso. Le camere gli votavano qualunque legge.
Eppure non funzionò: il governo era così forte che pensava di potersi permettere tutto, anche di infischiarsene dei debiti, degli altri paesi, della coerenza, della credibilità.
E si ritrovò in difficoltà: “E’ esagerato -dicevano tutti-questo non è un governo, è una processione medievale di cortigiani e cortigiane a rimorchio del sovrano. Il leader è solo e non è più credibile. Non durerà”.
E infatti non durò.
Nel paese tutti si lamentavano dei politici e della politica.
Nel frattempo però la situazione economica era così compromessa che non c’era neppure più il tempo per tornare a votare e si decise di affidare il governo a persone che -per la loro competenza-  potessero entrare nel merito dei problemi e trovare soluzioni con maggiore autonomia dei cortigiani e minori timori di chi prima o poi avrebbe dovuto farsi votare.
Ma la gente riprese a lamentarsi: “Non sono abbastanza politici… troppo tecnici”; “Sono troppo politici, altro che tecnici!”; “Sono troppo freddi e distaccati”; “Troppo emotivi, piangono in diretta tv”; “Qualcuno ha le orecchie a sventola; “Marionette di occulti burattinai…”. Questo non è un governo, è una squadra di burocrati. Non durerà.
Il paese in fondo voleva solo politici competenti, seri, efficienti, che facessero quadrare il bilancio, che risanassero il debito e rimettessero in moto l’economia, la competitività e l’occupazione, realizzando rapidamente riforme strutturali della giustizia, della sanità, delle pensioni, della scuola e della pubblica amministrazione. Il tutto impostando una perfetta politica fiscale (così perfetta che sembri equa a tutti allo stesso tempo), ottenendo risultati in tempi brevi. Ovviamente con creatività, simpatia e leggerezza. E’ forse chiedere troppo?
Si. E’ chiedere troppo. Ma in Lamentostan non lo capiscono.
Se non è così non è un buon governo. Non durerà”.

domenica 11 dicembre 2011

IL MATRIMONIO AL TEMPO DELLE COLLABORAZIONI OCCASIONALI

La settimana scorsa il figlio di un mio amico mi ha comunicato che tra qualche mese si sposerà. Mi sembra davvero una buona notizia.
Nei giorni successivi più di un amico, commentando, ha trovato naturale chiedermi se (dunque) i due avevano trovato un lavoro, collegando evidentemente la decisione presa a quella che considerava la condizione che l’aveva resa possibile.
Nulla di strano. La mia generazione e quella dei miei genitori è cresciuta considerando il vivere insieme, il matrimonio e l’autonomia economica tre passaggi strettamente connessi, ognuno condizione dell’altro. Non si viveva insieme se non si era sposati, ma non ci si sposava se non c’era autonomia economica, dunque trovare un lavoro diventava il passaggio che dava il via libera agli altri due. Ma non è stato sempre così: all’epoca dei miei nonni e bisnonni la precarietà cronica della condizione rurale non consentiva di identificare con chiarezza il passaggio all’autonomia economica del singolo nucleo, che restava spesso collegato –per il reddito e non solo- alla famiglia allargata di origine, così che la scelta di sposarsi risultava meno condizionata, sganciata dalle variabili studio-casa-lavoro poteva essere presa con maggiore libertà.
Ma le cose cambiano e così come il migrare dalle campagne alle città, la scolarizzazione e il superamento della famiglia allargata hanno generato il modello della famiglia mononucleare fondata sulla autonoma produzione di reddito, oggi la difficoltà a realizzare quest’ultima condizione modifica di fatto la connessione di necessità tra autonomia economica e matrimonio.
Delle due l’una: o non si considera più il raggiungimento dell’autonomia economica la condizione indispensabile per sposarsi, o -come sta avvenendo sempre più spesso- non ci si sposa più. Non si tratta di una scelta ideologica, ma di una mutata condizione “ambientale”.
Ma allora -in questo mutato quadro- che significa sposarsi?
Penso significhi, (come è sempre stato) decidere di vivere insieme e affrontare insieme le vicende della vita, solo che oggi tra queste vicende rientra anche la ricerca del (primo) lavoro e di una autonomia economica, mentre in passato questa precedeva la decisione di sposarsi e ne costituiva la condizione.
Ma non tutti i mali vengono per nuocere: forse svincolando il matrimonio dalla stabilità economica lo si “sgancia” da una variabile imprevedibile e pericolosa, costringendo chi prende questa decisione a trovarne le ragioni esclusivamente nella propria libertà e responsabilità.
Va da sé che non avere un’autonomia economica stabile comporta “arrangiarsi” con poche risorse e dipendere per molte cose da altri, ma anche questa precarietà fa parte delle vicende della vita! Non c’è oggettivamente molta differenza fra essere precari ciascuno a casa sua ed essere precari da sposati. La vera differenza è tra considerare questa precarietà come il problema di ciascuno o affrontarlo come un problema “di coppia”, che è appunto quello che ci si aspetta da due persone che hanno deciso di sposarsi.
Ecco perché la decisione di sposarsi mi sembra comunque una gran bella notizia. Anche al tempo delle collaborazioni occasionali.

martedì 1 novembre 2011

MIOPIA PROGRESSIVA

La miopia colpisce sempre di più la popolazione mondiale: la spiegazione non va tanto ricercata nel tempo trascorso davanti al pc o alla televisione, quanto nel fatto che trascorriamo troppo poco tempo all’aria aperta. Secondo uno studio presentato dall’American Academy of Ophthalmology, gli occhi hanno perso l’abitudine di spaziare verso l’orizzonte.”
Insomma a forza di guardare solo vicino, non siamo più capaci di guardare lontano.
Ho letto distrattamente questa notizia sul giornale e poi mi è apparsa un’amara metafora della nostra stagione, anzi, del modo in cui la viviamo. Non solo sul piano politico, ma anche su quello economico, lavorativo, esistenziale… siamo talmente preoccupati di non cadere nelle buche e di non inciampare nei sassi che teniamo lo sguardo costantemente incollato a terra, al prossimo passo, alla prossima settimana, alle prossime elezioni e non riusciamo ad alzarlo verso l’orizzonte per capire in che direzione stiamo andando.
Non che la preoccupazione di guardare dove mettiamo i piedi sia infondata, è verissimo che il percorso è accidentato e che se ci rompiamo una gamba non arriviamo da nessuna parte, ma continuare a fare lo slalom tra le buche senza sapere dove porta la strada (o almeno dove vorremmo che portasse) non è proprio geniale. Se il massimo dell’aspirazione è avere una strada senza buche, temo non andremo lontano.
Non rimpiango stagioni in cui grandi orizzonti e grandi ideologie riempivano i sogni degli ingenui e la pancia dei furbi, ma anche se si sta affogando è più importante sapere da che parte è la riva che nuotare velocemente.
L’aspetto della notizia dell’American Academy of Ophthalmology che mi inquieta di più è la sclerotizzazione del disturbo: ho paura che a forza di non guardare mai l’orizzonte, anche quando decideremo di farlo non lo vedremo più nitidamente. Forse ci sembrerà così sfocato che torneremo a contare le buche e a lamentarci…


sabato 15 ottobre 2011

L'INDIGNOMETRO

L’indignazione è un sentimento prezioso.
E’ stata spesso la forza che ha reso possibile importanti cambiamenti, e anche nella storia personale di ciascuno di noi possiamo certamente rintracciare situazioni in cui -davvero indignati- siamo stati capaci di dire “basta!” per poi rimboccarci maniche e cervello e “venirne fuori”.
C’è un solo modo per rendere sterile l’indignazione e sprecare tutto il suo potenziale: limitarsi a gridarla al vento.
Nessun “basta!” ha mai cambiato niente se non è sfociato in una proposta percorribile, se non è riuscito a indicare un traguardo concreto, ragionevole e ragionato.
Ma -si dirà- “quando è troppo, è troppo”: ci vogliamo negare il diritto di gridare la nostra rabbia? Vogliamo mettere a tacere l’indignazione (per carità “sacrosanta”, l’ha detto anche Draghi) e non urlarla, condividerla, raccontarla?
Ovviamente no! Non si tratta di metterla a tacere, al contrario di metterla a frutto, di renderla utilizzabile per produrre un cambiamento.
Se invece quello che vogliamo è solo l’urlo liberatorio, allora nessun problema: è una terapia di gruppo. Può certamente servire a sentirsi meglio: un paio d’ore, poi tutto torna come prima.
La definizione più giusta che ho mai trovato di “potere” è “la possibilità di produrre o inibire il cambiamento”. In questo senso l’indignazione può essere un potere o non esserlo affatto ed è facilissimo capirlo: se produce un cambiamento lo è, se non produce alcun cambiamento è inutile.
Quando ero al liceo ricordo che prendevamo in giro un amico per i suoi discorsi tanto appassionati quanto inconcludenti dicendo: “scusatelo, era assente quando hanno spiegato la differenza tra astratto e concreto…”.
Oltre ad “astratto-concreto”, credo ci siano altre coppie di opposti da tenere sotto controllo in questo periodo con particolare attenzione. Ad esempio le coppie “comprensibile-utile” e “protesta-proposta”. La rabbia è a volte comprensibile, non sempre è utile. La protesta è spesso fondata e ragionevole ma non per questo produce automaticamente il cambiamento che auspica.
Forse la vera sfida di questo periodo che stiamo vivendo è proprio riuscire a trasformare ciò che è comprensibile in una proposta percorribile e la frustrazione generalizzata in un progetto politico concreto.
Se la strada è tracciata e i binari posati, allora sì che l’indignazione può essere prezioso combustibile per la caldaia della locomotiva, ma prima di posare i binari lanciare la locomotiva non è una buona idea.
Quale che sia il livello che oggi segna l’indignometro, dobbiamo scegliere se fare la terapia dell’urlo o rimboccarci maniche e cervello (direi il cervello prima delle maniche).


domenica 2 ottobre 2011

UN PAIO DI MOTIVI PER NON DISPERARE

Non è difficile trovare motivi per preoccuparsi. Non bisogna neppure fare lo sforzo di cercarli: sono loro che cercano noi. Dai titoli dei giornali sono ormai atterrati sul nostro estratto conto, sullo scontrino del supermercato, sul modo di passare il weekend, sui litri di benzina da chiedere al distributore, sui progetti definitivamente accantonati.
Il timore che non si tratti di una crisi passeggera ha ormai cessato di essere solo un timore e la spiacevole sensazione di scivolare verso il basso senza avere idea di come arrestare la caduta fa ormai da sfondo ai nostri pensieri. Le ricette che politici ed economisti confezionano il lunedì non sono più buone il martedì e le previsioni degli esperti assomigliano ormai pericolosamente ai luoghi comuni del pessimismo da bar.
E non si tratta più solo di noi o di questa stagione, si tratta del futuro nell’ordine degli anni, dei decenni; della possibilità per i nostri figli di trovare o non trovare un lavoro stabile e –conseguentemente- di mettere su famiglia e di poter avere figli senza che questo sembri un folle azzardo e una sfida al buon senso, insomma di vivere una vita “normale” come quella che abbiamo avuto noi.
E’ davvero facile trovare motivi per disperare, difficile è trovarne per non disperare.
E allora proviamoci.
Iniziamo ad ampliare l’orizzonte entro il quale siamo abituati a ragionare, quello della nostra vita biologica. Senza accorgercene riteniamo la nostra vita il centro della storia e finiamo per considerarla il termine di paragone di tutto. Quando diciamo che temiamo che il futuro sarà più difficile, che la vita dei nostri figli sarà più difficile, a quale termine di paragone ci stiamo riferendo se non a noi stessi e alla nostra generazione? E perché non –ad esempio- a quella dei nostri genitori o dei nostri nonni o bisnonni? E poi siamo proprio sicuri che abbia senso fare questi paragoni? A che serve? A chi serve? Eppure gran parte della nostra ansia nasce proprio da qui.
La scorsa settimana ho incontrato una ragazza venticinquenne (una laurea, un lavoro provvisorio, un futuro imprevedibile… insomma come tutti) che mi confessava candidamente di non sentirsi né particolarmente fortunata, né particolarmente sfortunata, si sentiva come un giocatore all’inizio della sua partita: si concentra, cerca di valorizzare la sua preparazione, si impegna, prova a giocare con intelligenza… poi la partita andrà come andrà, le capacità e l’impegno faranno i conti con le avversità e le casualità e alla fine, quale che sia il risultato, quella sarà stata la “sua” partita, e chissenefrega se quella dell’anno prima era andata meglio o peggio, quella non era la “sua”.
Insomma il messaggio è: “ho capito che ci sono stati altri tempi in cui era più facile trovare lavoro, avere stabilità, fare figli e invecchiare ricamando… ma la mia vita è adesso e vorrei potermela giocare per quella che è”.  A pensarci bene ci sono anche stati tempi in cui era difficile trovare cibo a sufficienza, imparare a leggere e superare i quaranta eppure eccoci qui, siamo i figli di quei tempi e stiamo ancora a raccontarcela.
Un secondo passaggio è rinunciare (davvero) alla convinzione che la maggiore o minore felicità  di un gruppo sociale (e delle singole persone che lo costituiscono) dipenda solo da quelle variabili che ci ostiniamo a considerare come unici indicatori: la capacità di produrre reddito e la garanzia di stabilità. Sappiamo benissimo che non è così. Conosciamo tutti persone senza  problemi di reddito e con solide garanzie di stabilità che tuttavia non ci sogneremmo mai di definire felici. Sappiamo benissimo che su questo tavolo pesano in modo determinante altre variabili: le prime due che mi vengono in mente sono il rapporto con il tempo e l’equilibrio tra quello “che sai, che vuoi e che fai“. Si tratta di variabili che non hanno molto a che vedere con la capacità di produrre reddito e con le garanzie di stabilità, e  chissà che invece su questo fronte le nuove generazioni non abbiano qualcosa da insegnarci e non riescano clamorosamente ad essere più felici di noi? (Non era quello che dicevamo di volere?)
Siamo noi a decidere se le cose che ci accadono sono tollerabili o intollerabili: dipende da come le leggiamo e le rapportiamo alla nostra vita. E questo vale anche per il periodo che  stiamo attraversando.
Forse sarebbe meglio recuperare una maggiore distinzione tra il piano politico e quello personale. Se sul piano politico occorre usare tutta la nostra intelligenza, capacità di analisi, immaginazione, determinazione per ottenere il miglior risultato possibile in termini di stabilità e prospettive di sviluppo, sul piano personale occorre fare qualcosa di più: recuperare leggerezza e sdrammatizzare la portata epocale di ogni scelta. La storia è andata avanti secoli senza di noi, limitiamoci a giocare bene la nostra partita e a cercare di essere un po’ felici (se ci riusciamo). Avere paura non e’ mai stata una buona idea.

lunedì 12 settembre 2011

SCUSI, SA DOV'E' LA TERRAFERMA

L’abbiamo sempre saputo che dietro i numeri ci sono nomi, storie, facce, ansie e speranze, ma a forza di leggere i titoli dei giornali sugli sbarchi a Lampedusa finiamo per considerare le cifre degli sbarcati come i millimetri di pioggia, l’andamento del dollaro o i punti di spread: oggi un po’ più su, domani un po’ più giù….
Il film di Crialese “Terraferma” ci fa uscire dal grafico dei barconi in arrivo, uscire dai numeri degli sbarcati per toccarli, sentirne il fiato, guardarli negli occhi e sulla pelle. E’ un film “fisico”, fatto di primi piani e di sudore, di corpi pesanti e occhi grandi, di acqua di mare e sabbia, sabbia a grana grossa, di cui puoi contare i granelli, sabbia calda appiccicata alla pelle e sabbia fredda sul fondo del mare con le ciabatte spaiate, i documenti nelle buste di plastica trasparente, gli spazzolini da denti caduti dalle tasche.
Qui non si parla di “immigrazione” come concetto sociologico, non di “immigrati” come categoria, né di altre culture o di rivoluzioni nel nordafrica. Non si parla nemmeno di accoglienza e di solidarietà: si parla di persone che si incontrano anche se non vogliono incontrarsi, di storie disperate (quelle di chi sbarca) che entrano in collisione con altre storie disperate (quelle dei pescatori) a complicare vicende già complicate. Non ci sono i buoni e i cattivi,  ci sono solo i contrasti, quelli insanabili, quelli per i quali non esistono mediazioni possibili.
Per esempio il contrasto tra la legge vigente (concepita a Bergamo, scitta ad Arcore e votata a Roma) e la “la legge del mare”, quella che non consente di lasciar morire un uomo girandosi dall’altra parte: è forse possibile una mediazione? Qual è il punto di equilibrio, farne morire uno si e uno no? Ovviamente il vecchio pescatore non ha dubbi, la legge del mare va rispettata; ma anche il finanziere non ha dubbi, la legge vigente va rispettata…
O il contrasto tra l’esigenza di accogliere i turisti per produrre l’unico reddito possibile e l’impossibilità di nascondere i corpi arenati sulla spiaggia. Qual è il punto di equilibrio, raccattarli tutti prima dell’alba per garantire le attività di animazione del villaggio?
Nel film “Terraferma” locali e immigrati sembrano estremamente simili, i “diversi” sembrano i turisti, veri marziani sbarcati da un altro pianeta, testimoni distratti di storie che non capiscono: un po’ come noi quando leggiamo sui giornali i racconti degli sbarchi.
Dice Ilvo Diamanti nel suo articolo “Quei film sugli immigrati nel paese di terraferma” (Repubblica, 12/09), “Oggi ci scopriamo spaesati. Orfani di un governo che sappia governare e di uno Stato in cui aver fiducia. Così ci sentiamo stranieri a casa nostra. Da ciò la ragione, almeno: una ragione importante, di tanti film italiani sugli immigrati quest'anno, a Venezia. In realtà, parlano di noi.Sperduti e spaesati nel Paese di Terraferma”. E già, parlano di noi: di chi comincia a non sapere più cosa fare e cosa pensare anche senza aver attraversato il mare su un barcone, di chi non è più sicuro di capire la “manovra” anche se non ha problemi di lingua, di chi comincia a sognare migrazioni per i suoi figli perché non riesce più  a credere in un futuro per loro in un paese come questo… proprio come il tunisino e il somalo quando decidono di salire su un barcone.
Nessuno verrà da un altro pianeta a risolverci il problema e a costruire una prospettiva migliore. Non ne possiamo più di sperare in tsunami purificatori, elezioni risolutive, uomini della provvidenza, svolte radicali, manovre inutili. La magia non esiste, i miracoli non esistono, le soluzioni semplici ai problemi complessi non esistono, i condottieri sono finiti: esistiamo solo noi, la nostra testa, il nostro buon senso, la capacità di accettare di diventare più poveri e quella di accettare che ci aspettano anni in salita. Non facciamone un dramma. Mai così in salita come il Mediterraneo visto dalla Libia.

domenica 19 giugno 2011

POVERI CRISTI

Scolpiti nel legno, fusi nel bronzo, dipinti su tela, incisi nel ferro; da piccolissimi a enormi li troviamo nelle chiese, nelle piazze, nelle scuole, sulle montagne, dondolanti da specchietti retrovisori, appesi a pacchiane catene d’oro su petti villosi o a eleganti catenine su scollature generose.
Il progetto di legge regionale dell’on.le Alessandro Marelli (Lega) vuole ora i crocifissi obbligatori nei locali e negli edifici della Regione Lombardia ufficialmente per “promuovere i valori del cristianesimo”, ufficiosamente –non è difficile capirlo- per marcare il territorio e come amuleto antislamico.
Pur non essendo note le sfumature delle convinzioni religiose di Bossi, Castelli e Borghezio, il crocifisso fa sicuramente parte della loro identità culturale così come il cotechino della bergamasca e il rosso di Franciacorta, anzi, a pensarci bene, entrambi questi ultimi potrebbero egregiamente funzionare come amuleto antislamico meglio del crocifisso: in fondo di Gesù il Corano parla bene, del maiale e del vino non molto.
Forse però l’improvvisa ansia della lega di rendere i crocifissi obbligatori ha un’altra (non molto occulta) spiegazione. Oltre a quelli scolpiti, esposti, dondolanti ed appesi, c’è infatti un’altra numerosa categoria di poveri cristi i quali però -secondo la Lega- non promuovono abbastanza i valori del cristianesimo. Li troviamo sui barconi fra Tripoli e Lampedusa, nei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione), sui binari della Stazione Ostiense e nei padiglioni dismessi del Forlanini a Roma. Probabilmente non promuovono i valori del cristianesimo perché –a differenza di quelli di legno- questi viaggiano, mangiano, dormono, parlano, cercano lavoro, hanno figli ed è difficoltoso appenderli al muro di un assessorato e dimenticarli lì.
Nei giorni scorsi, immagino sempre per promuovere i valori del cristianesimo, c’è chi ha proposto un bel blocco navale a largo delle coste libiche e chi ha fatto varare al Consiglio dei ministri un decreto legge che porta da 6 a 18 mesi il limite di detenzione nei CIE dando così un po’ di soddisfazione ai convenuti a Pontida e un argomento in più agli acuti approfondimenti politici nelle osterie di Bergamo bassa.
Prevedendo una reazione critica da parte della CEI a queste ultime simpatiche iniziative, la Lega ha pensato bene di riesumare la storia dei crocifissi nei locali pubblici per fugare ogni dubbio su chi difende davvero le “radici cristiane” nel nostro paese…
Se anche questa volta qualche vescovo ci casca si merita davvero di ritrovarsi il cotechino della bergamasca e il rosso di Franciacorta sullo stemma della diocesi, ovviamente sempre per promuovere i valori del cristianesimo.

domenica 27 febbraio 2011

L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL VOTO

Una ventina di anni fa, a Porto Alegre, ho incontrato una anziana suora brasiliana che alle elezioni dell’anno precedente aveva votato convinta per il presidente Fernando Collor de Mello.
Rimasi un po’ stupito visto che sul presidente pendevano gravi accuse di corruzione, evasione fiscale, interessi privati e la sua fallimentare politica economica non era apprezzata né in Brasile, né all’estero. Pochi mesi dopo Collor de Mello fu destituito dal parlamento in seguito ad un procedimento di impeachment.
Chiesi allora all’anziana suorina cosa l’avesse convinta a votare per lui e perché ne fosse così entusiasta, e lei candidamente mi confessò di non capire molto di politica ma che lo trovava molto bello. Già, disse proprio così, “molto bello”, il che -tra l’altro- era vero: si trattava di un aitante quarantenne che aveva sostituito un panciuto sessantenne (Josè Sarney).
Provai ad obiettare che la bellezza non mi sembrava un buon criterio nella scelta di un uomo politico, ma lei continuò a sorridere e a ribadire convinta che, non essendo in grado di valutare altri aspetti, aveva scelto l’unico che la convinceva, poi cambiò discorso perché di lì a poco iniziava la puntata quotidiana di “Explode o coração”, la sua telenovela preferita.
Tornai dal Brasile pensando che in una democrazia adulta (come allora credevo quella italiana) le persone non votano in base alla bellezza o alla ricchezza, ma in base alle idee, ai valori, ai programmi o -nei casi meno “puri”- in base ai vantaggi che ritengono possa portar loro l’elezione di un candidato piuttosto che un altro.
Oggi la penso diversamente.
Oggi sono convinto che la percentuale delle persone che davvero scelgono per chi votare alla fine di un ragionamento che saprebbero esporre e motivare è molto bassa e, poiché la base del suffragio universale è il principio “one man, one vote”, essa risulta scarsamente influente sull’esito delle elezioni.
Ovviamente oggi suonerebbe ridicolo il principio con cui si votò la prima volta in Italia nel 1861: solo i maschi che sapevano leggere e scrivere, maggiori di 25 anni e che pagavano almeno 40 lire di imposte. Nulla da eccepire sul voto alle donne, ai diciottenni e svincolato dal  reddito, ma -sinceramente- sul saper “leggere e scrivere” un pensierino ce lo farei…
Fantasie intellettuali a parte, in base a quali criteri le persone scelgono chi votare ? (Voglio dire nella realtà, non nel pianeta inesistente del mondo come vorremmo che fosse).
Non basta dire che ognuno sceglie in base alle proprie convinzioni, quello che bisogna capire è come si alimentano queste “convinzioni” e poi, siamo davvero sicuri che si tratta di convinzioni ? La suorina brasiliana era davvero “convinta” che la bellezza fosse un buon criterio o piuttosto aveva seguito l’emozione senza starci a pensare più di tanto ?
Fatta salva la minoranza – e chi ha letto fino a qui ne fa probabilmente parte- che alimenta le proprie convinzioni con la riflessione sui valori, l’analisi dei dati oggettivi, la valutazione della coerenza e della fattibilità dei programmi e il giudizio motivato sui candidati (ad essere generosi direi non più del 10% dei votanti, più o meno distribuiti fra tutti gli schieramenti), l’esito delle elezioni è comunque deciso dall’altro 90%.
Continuiamo allora ad impegnarci a capire meglio la complessità delle questioni economiche e sociali, a valutare meglio i candidati, ad approfondire la coerenza delle scelte politiche in ordine ai diversi problemi, ma non illudiamoci che vinceremo nella misura in cui noi saremo convinti, né che questo basterà a convincere molti altri.
Temo (lo so che scopro l’acqua calda) che la maggior parte degli elettori scelga alla fine in base a spinte, emozioni, pulsioni che poco hanno a che fare con i contenuti della politica: la simpatia, la bellezza, gli slogan, i pregiudizi alimentati, la ripetizione dei luoghi comuni condizionano l’esito elettorale molto più di tutto il  resto. Non darei invece troppo peso al voto di interesse: tolti infatti quelli (che pur ci sono) capaci di trasformare il loro voto in un biglietto da cinquanta euro, gli altri che votano rincorrendo un personale interesse si nutrono più di promesse che di realtà e sono facilmente condizionabili (basta promettere di più).
E allora ? Allora bisogna aver chiaro che fare seriamente politica e vincere le elezioni sono due cose diverse. Temo siano solo lontani parenti.
La politica si fa con i valori, i contenuti, le analisi, le coerenze possibili; le elezioni si vincono con le promesse, la simpatia, gli slogan, la bellezza, la demolizione sistematica dell’avversario.
La prima è una cosa seria e impegnativa, la seconda è puro marketing; ma senza la seconda, la prima si fa solo in salotto.
Fernando Collor de Mello non era un gran politico, ma le elezioni le aveva vinte.


venerdì 18 febbraio 2011

MI CHIAMO LORENZO E NASCERO' AD APRILE

Mi chiamo Lorenzo e nascerò ad aprile del 2011.
Ho sentito dire (da qui dentro si sente tutto) che sarà primavera, a quanto pare una stagione piacevole con sole luminoso, giornate che si allungano e fiori che profumano: bene, cominciamo bene.
Sto cercando di farmi un'idea di quello che mi aspetta lì fuori, di come si vive, di cosa c'è di bello e di interessante, cosa si fa, insomma come funziona questa avventura che mi aspetta e che durerà -così dicono- circa novanta anni, forse anche di più (se le cose stanno così dovrei riuscire a vedere, da vecchio, l’inizio del 22° secolo!).
Ovviamente non ho esperienza di quanto duri un anno, ma considerando che sono qui dentro da poco più di sei mesi e già mi sembra tanto, un anno deve essere abbastanza lungo; anche se probabilmente lì fuori ci sono molte cose da fare e da vedere e il tempo passa più in fretta di quanto non si creda (anche questo l'ho sentito dire più volte).
Sono curioso di vedere come sono fatto io e come siete fatti voi.
Sono curioso di capire cosa intendete esattamente quando dite “si”, “no”, “bello”, “brutto”, “buono”, “cattivo”, “mi piace”, “non mi piace”; sembra siano differenze piuttosto importanti almeno a giudicare da quanto discutete e vi arrabbiate per queste faccende.
Sono curioso di capire cosa si prova a fare tutte quelle azioni di cui sento parlare e che non riesco ad immaginare: camminare, cantare, viaggiare, toccare, mangiare, correre, baciare, sognare, giocare… non so bene che roba sia ma deve essere davvero divertente.
Ma voi quanti siete? Sento parlare molte persone e di molte persone, temo di capitare in un posto molto affollato, anche se non vedo l’ora di conoscere gli altri che -come me- cominciano quest’anno : con loro almeno sarò alla pari e non mi tratteranno con quell’aria “saputa” (che ormai riconosco) utilizzata da chi è arrivato prima con chi è arrivato dopo.
Sembra succedano un sacco di cose lì fuori, anche se poi -in certi momenti- tutto tace e sembra che non succeda più niente. Non riesco a spiegarmelo… come se le cose accadessero solo quando voi volete che accadano. Sospetto che le cose che davvero vi toccano direttamente non siano poi tante, solo che si confondono con quelle che capitano agli altri, con quelle che raccontate e che vi raccontano, con quelle che vorreste che capitassero ma non capitano e con quelle che potevano essere e non sono state… insomma una grande confusione… io cercherò di essere più ordinato: non vorrei sprecare nulla dei miei novant’anni a rincorrere cose che non esistono.
C’è poi una domanda importante di cui mi piacerebbe conoscere la risposta: ma voi siete contenti di vivere? Lo chiedo perché sento certi discorsi che mi fanno venire qualche dubbio. Se crescere, capire, incontrarsi, conoscere, amarsi, inventare, decidere, correre e avere figli sono cose così belle come sembra (lo spero proprio!), perché allora certe volte dite che non è così e che è tutta una fregatura ? Non facciamo scherzi ! Io devo ancora cominciare, sono sicuro che ne vale la pena (anzi non vedo l’ora) e così mi piacerebbe vedere facce sorridenti e incontrare persone contente di stare con me… posso chiedere a tutti uno sforzetto di incoraggiamento, magari non solo di circostanza?
Non potendo vantare (of course) nessuna esperienza, provo in breve a dirvi come me la immagino (questa avventura) e cosa mi piacerebbe: me la immagino interessante, lunga, bella e intensa e mi piacerebbe viverla con tanti amici, divertendomi, provando tutto quello che si può e arrivare alla fine stanco ma contento.
Ditemi che si può fare.

venerdì 4 febbraio 2011

NON CHIEDERMI MAI COME

Vi è mai capitato di sentire qualcuno di idee politiche dichiaratamente opposte alle vostre fare affermazioni in cui vi ritrovate pienamente? Paura, eh?!
La reazione tranquillizzante in questi casi è immediata. Di essere finiti noi dalla parte sbagliata non se ne parla. Al massimo si può accettare che il nostro interlocutore sia prossimo alla “conversione” o che sia persona dotata di buon senso, casualmente ritrovatasi dall’altra parte (osservazione che, ovviamente, anche lui avrà fatto riferendosi a noi).
Come non condividere -ad esempio- l’idea che è inaccettabile l’attuale durata media di un processo? O come non essere d’accordo con chi auspica che si creino le condizioni per un alleggerimento delle tasse e che ci sia una maggiore equità fiscale? Chi può essere contrario all’idea che è indispensabile razionalizzare la spesa e ridurre gli sprechi? O che -tanto per dire una cosa originale- bisogna farla finita con i “lacci e lacciuoli” che soffocano la libera iniziativa?
Il fatto è che le vere differenze politiche non stanno nelle finalità che ciascuna parte dichiara di perseguire, ma nel modo in cui intende farlo (e nel modo in cui poi lo fa effettivamente).
La politica non è fatta di “cosa”, è fatta di “come”.
E’ nel “come” si vogliono accorciare i tempi dei processi che si vede la differenza: anticipare i tempi delle prescrizioni o aumentare risorse e mezzi a disposizione delle procure?
Come” vogliamo raggiungere una maggiore equità fiscale? Applichiamo meglio il principio di proporzionalità delle aliquote? Perseguiamo con più efficacia l’evasione? Puntiamo sulla riduzione delle aliquote e l’ampliamento della base impositiva?
Come” vogliamo razionalizzare la spesa, ridurre gli sprechi e sciogliere i “lacci e lacciuoli”?
Ciascuna di queste cose si può fare in modi diversi ed è proprio su questa diversità di modi che dovrebbe giocarsi il confronto delle idee… e invece non è così. Perché a dire come vogliamo fare le cose si è costretti ad esporsi, ad entrare nel merito, a lasciar capire anche come non vogliamo farle… insomma si scoprono le carte, si rischia di perdere consenso. Meglio eludere il merito e il contenuto, meglio rifugiarsi nei tranquilli paradisi dei grandi valori (la pace nel mondo va bene per tutti, dal papa a miss Alaska), nelle innocue foreste dei grandi auspici, nella stucchevole stanza degli specchi delle accuse reciproche.
Alla fine tutti affermano di volere le stesse cose e l’unico modo con cui si cerca di dimostrare di essere diversi dagli altri è sostenere che gli altri non sono credibili, che dicono ma non fanno, che dicono una cosa e ne fanno un’altra… eludendo così ancora una volta il piano del merito spostando il discorso su quello impalpabile (e soggettivo) della credibilità.
Ma che politica è una politica che del come non vuole parlare mai, che proclama ma non sceglie, che preferisce sempre la pubblicità al prodotto?
C’è da stupirsi se in questo scenario di chiacchiere incomprensibili e proposte inverificabili il culo di Ruby diventa più importante della cassa integrazione ?

domenica 9 gennaio 2011

TERRE PROMESSE

Sono appena tornato dalla Palestina.
Mi piace chiamarla così, nella sua accezione più ampia ed antica (quella etimologica di “terra dei filistei”), prima di tutte le guerre e le vicende successive.
La chiamano spesso “Terra Santa” e ho sempre pensato che questo modo di dire fosse un po’ esagerato e improprio: come può essere “santa” una terra?
Eppure si tratta di una esagerazione comprensibile.
Sono ormai trentanove secoli che popoli diversi considerano quel piccolo territorio “speciale”.
Ebrei, cristiani e musulmani lo hanno considerato la “Terra promessa”, via via terra da meritare, da conquistare, da liberare, da raggiungere, da riconquistare, da onorare, da ricordare. Perché la promessa si compia.
Su quelle colline e per quelle strade hanno camminato Abramo, Giacobbe, Salomone, i cananei, i moabiti, i filistei, i romani, Gesù, gli zeloti, Pietro, Paolo, gli esseni, i bizantini, Maometto, Omar, Saladino, i crociati, i mamelucchi, i turchi, gli ottomani, gli inglesi, i giordani, gli israeliani, i palestinesi dei territori prima assegnati e poi sottratti… e tutti hanno lasciato un segno, tutti hanno avuto un motivo per dire: “Qui” passa la storia, per convincersi che quella non fosse una terra come un’altra, ma il luogo misterioso che segna il rapporto con la trascendenza, con un Dio che promette, mantiene, salva.
Su quella terra e per quella terra si sono affrontati, uccisi, deportati, trucidati milioni di persone, in quella terra hanno festeggiato la vittoria -ciascuno convinto che fosse per sempre !- decine di popoli. Gerusalemme è stata distrutta e ricostruita innumerevoli volte.
Un concentrato di storia, di emozioni, di suggestioni. Un viaggio diverso. Un viaggio che non è possibile paragonare agli altri: più nel tempo che nello spazio, più nel senso delle cose che nelle cose stesse.
Una riflessione su tutte ha prevalso in questo viaggio: quella sulla “terra promessa”.
Se c’è una cosa della quale sembra che gli uomini non riescano a fare a meno è proprio credere ad una terra promessa.
Che sia fisicamente una terra, o -metaforicamente- uno status, un riscatto, una liberazione, un futuro diverso, è la fede nella promessa a fare da motore alla storia.
E’ la promessa la via d’uscita dal caso e dal caos. Dice Hannah Arendt nella sua Vita Activa: Il rimedio all’imprevedibilità della sorte, alla caotica incertezza del futuro è la facoltà di fare e mantenere promesse”.
E’ il modo che l’uomo ha trovato per dare un senso alle sue storie e alla sua storia.
Ovviamente perché ci sia una promessa creduta occorre che ci sia un “promettitore” e un “destinatario”: tanto più il promettitore è autorevole e credibile, tanto più la promessa funziona e il destinatario è disposto ad impegnarsi perché essa si compia.
Le religioni non badano a spese sull’autorevolezza del promettitore: l’efficacia si gioca solo sulla intensità con cui i destinatari sono convinti della promessa ricevuta.
I politici e i condottieri, invece, quando fanno i promettitori, devono impegnarsi in prima persona a fornire elementi di credibilità (non sempre convincenti) e così spesso cercano il link con le religioni per risparmiarsi la fatica e correre meno rischi: il trucco è definirsi  “inviati”, “unti”, “profeti”, “uomini della provvidenza”, (spesso -temo- credendoci davvero!) acquisendo così una autorevolezza riflessa e poter cavalcare l’onda.
Con l’affievolirsi delle fedi religiose questo tipo di link funziona sempre meno e allora i promettitori hanno escogitato nuove tecniche: fare promesse che non sia possibile verificare con certezza misurabile (rilanciodell’economia, maggiore serenità, più concordia…), basare la credibilità di chi promette su precedenti generici successi o -meglio ancora- su luoghi comuni (aver fatto la gavetta, essersi fatti da sé, aver tirato la carretta…), reiterare le promesse frequentemente rialzando ogni volta la posta come chi bluffa a poker, avere sempre pronto un colpevole a cui addossare la colpa di eventuali clamorosi insuccessi e… cogliere l’occasione per rilanciare di nuovo.
Tutto questo perché non possiamo vivere senza terre promesse da raggiungere, senza avversari contro cui combattere, senza sognare terre di Canaan in cui scorre latte e miele.
Mi piace tornare alla indicazione della Arendt: il rimedio è “la facoltà dell’uomo di fare e mantenere promesse”, non solo di  esserne il destinatario e di credere che altri le mantengano.
Le promesse bisogna essere capaci di farle e mantenerle in prima persona.
Forse dovremmo smetterla di abboccare a chi ci promette la terra più bella e ricca per chiederci piuttosto quale terra -qui ed ora- siamo in grado di promettere a noi stessi e ai nostri figli.
E mantenere quello che promettiamo.