venerdì 25 dicembre 2015

ALLATTARE ATTRAVERSO LA RETE


Non tutte le mamme riescono ad allattare come vorrebbero, probabilmente anche quella di Betlemme avrebbe preferito qualcosa di meglio.
Ma ovunque e comunque non c'è gesto più bello e più efficace dell'allattare per percepire la vita che letteralmente "scorre" da una persona all'altra, fosse pure in un campo profughi attraverso una rete.
La vita, a volte, riesce a fregarsene anche delle reti.
Che c'è di più natalizio?

domenica 13 dicembre 2015

PUZZLE

Come in un puzzle, le informazioni isolate non sono decodificabili, solo collegandosi alle altre acquistano gradualmente un senso e diventano leggibili. Facciamo tutti fatica a comprendere cosa sta accadendo intorno a noi e che piega stanno prendendo le cose, ma per capire la nostra società, le dinamiche dell’economia, gli eventi politici -insomma la storia che stiamo vivendo- non è sufficiente aumentare la quantità delle informazioni, anzi il moltiplicarsi dei dati rischia di complicare le cose: le notizie e i commenti si sovrappongono, si contraddicono, si mescolano in un caos scoraggiante.
Bisogna piuttosto imparare a selezionare le informazioni che abbiamo e soprattutto a cogliere il loro senso, il filo logico che le collega e le ordina attenti a non cadere nella tentazione di far dire alle cose quello che abbiamo già deciso che debbano dire. Il sentiero che si snoda tra la presunzione di avere già la risposta per ogni domanda e la rinuncia a cercare una risposta sensata è un sentiero stretto e scomodo.
Eppure solo su questo accidentato sentiero possiamo cercare il significato degli eventi e di identificare i rapporti di causa ed effetto che li legano; un sentiero da percorrere con determinazione ignorando le roboanti affermazioni di chi ha solo certezze e la chiacchiera sterile di chi ha solo dubbi.  
Scriveva Georges Perec, nel suo “La vita, istruzioni per l'uso” che “Non sono gli elementi a determinare l'insieme, ma l'insieme a determinare gli elementi”: è in questo “insieme” il significato che dobbiamo intuire senza perderci nella frammentazione dei singoli fatti e -al tempo stesso- senza poterne prescindere del tutto.

E’ difficile, ma raccattare slogan e luoghi comuni non è entusiasmante (e non porta da nessuna parte). 

domenica 6 dicembre 2015

FAVOLOSO SOGGETTO PER UNA FICTION

Quando, alcuni anni fa, ho letto  “Il cacciatore di aquiloni” di Khaled Hosseini non credo di essere il solo ad aver pianto. Chi l’ha letto non può dimenticare l’amicizia profonda tra Amir e Hassan, i loro giochi d’infanzia in una Kabul ancora “normale” spazzati via da guerre e violenze, la naturale simmetria del rapporto tra due bambini prima incrinata e poi distrutta dall’esplosione del conflitto tra Pashtun e Hazara, tra sunniti e sciiti.
Quella lettura mi ha introdotto allo scenario afghano, mi ha dato le prime coordinate di un paese del quale in seguito ho appreso molto altro soprattutto dalla viva voce dei protagonisti costretti a fuggire da un paese che amavano e che amano ancora.

Immaginate ora, come se fosse una fiction “surreale”, una storia che parte da quello scenario.

Metti che un ragazzo di diciassette anni decida di cercare protezione all’estero pensando -come molti altri- di andare in Svezia senza avere la minima idea di dove fosse, solo perché gli hanno detto che lì accolgono i rifugiati.
Metti che attraversi fortunosamente Pakistan, Iran e Turchia e arrivi in Grecia, dove qualcuno gli proponga di organizzargli il viaggio fino in Svezia con tanto di documento intestato a “Paperino” e biglietto aereo con scalo in Italia.
Metti che nello scalo gli prendano le impronte digitali, gli ritirino il documento e lo lascino al suo destino.
Metti che la forza dei diciassette anni lo spinga comunque a continuare il viaggio anche senza aereo e senza documento e che riesca ad arrivare in nord Europa dove chiede protezione internazionale.
Metti che lo parcheggino in vari centri di accoglienza rimbalzandolo per cinque anni fra il mare del nord e il circolo polare per poi dirgli che no, la politica dell’accoglienza è cambiata e che la sua richiesta di asilo è rifiutata.
Metti che il ragazzo, ormai ventiduenne, decida allora di provare a chiedere asilo in Italia e riparta verso sud per arrivare a Roma dove, verificate le sue impronte, lo arrestano immediatamente spiegandogli che il suo nome non è il suo nome, che lui si chiama “Paperino” e che “Paperino” è stato condannato cinque anni prima per “possesso di documenti falsi”.
Metti che con il nome di “Paperino”, senza l’assistenza né di un legale né di un interprete, venga sbattuto dentro con una condanna a venticinque mesi non riuscendo a capire perché continuino a chiamarlo Paperino e che solo dopo un anno parenti ed amici (che per pagare l’avvocato si vendono anche l’anima) riescano ad ottenere che continui a scontare la pena ai domiciliari potendo uscire solo dalle 10 alle 12.
Metti che una mattina alle 9,50 “Paperino” esca per a buttare la spazzatura nel cassonetto di fronte al portone e rientrando a casa venga fermato per un controllo da una pattuglia della polizia di passaggio.
Metti che “Paperino” venga denunciato per “evasione” e che uno zelante magistrato gli revochi i domiciliari.
Metti che stasera “Paperino” dorma rinchiuso nel carcere di Rebibbia continuando a non capire cosa ha fatto di male e perché nessuno lo chiami col suo nome.
Metti che non è una fiction.

[Uno dei miei figli ha la stessa età di Paperino e non riesco a non immaginare come mi sentirei se fosse lui ad essere rinchiuso a Rebibbia, chiamato con un nome che non è il suo e senza nessuna possibilità di spiegare che non ha fatto niente di male. Mi sentirei come mi sento stasera.]

domenica 29 novembre 2015

PAURA e SUGGESTIONE

Polizia raddoppiata, agenti armati all’ingresso della metropolitana, blindati agli incroci. E poi i controlli, concentrati sulle persone dall’aspetto mediorientale, sulle donne che portano il velo, su chi ha la pelle più scura di quella degli indigeni (in questo caso gli italiani).
Comprensibile? Sì, emotivamente comprensibile.
Utile? Sì, utile a rassicurare chi vuole sentirsi rassicurato. Un po’ meno utile se riflettiamo sulla oggettiva impossibilità di controllare tutto e tutti e sul fatto che se qualcuno volesse davvero organizzare un attentato non si fermerebbe certo per qualche controllo in più.
E’ normale che, dopo i fatti di Parigi, siano stati disposti maggiori controlli: li esige la paura, li offre chi deve e vuole rassicurare chi ha paura.
Un po’ meno normale la prevedibile semplificazione della risposta, la scorciatoia del ragionamento che appare calibrato più sulla pancia di chi ha paura che sull’analisi dei dati. Davvero pensiamo che l’abbigliamento e il colore della pelle siano indicatori di maggior rischio? Coloro che organizzano attentati sono pericolosi criminali, ma non sono ingenui e sprovveduti. Che problema avrebbero ad affidare il trasporto di armi a un ragazzo biondo con gli occhi azzurri visto che la polizia ferma solo quelli olivastri con gli occhi neri?
Cercando di andare oltre la suggestione degli ultimi fatti, siamo sicuri che i dati oggettivi sul terrorismo confermino le “certezze” che crediamo di avere? I più recenti avvenimenti hanno lasciato a molti la convinzione che il terrorismo sia prevalentemente di matrice religiosa (in particolare islamica), che sia focalizzato sulla distruzione della cultura occidentale (cristiana?), che sia il pericolo più grave che corriamo per la nostra incolumità. Sicuri che le cose stiano davvero così?
Un articolo di Filippo Petrocelli [http://goo.gl/GPrPNw] riporta dati interessanti tratti dal Global Terrorism Index, che smentiscono tutte e tre le convinzioni appena ricordate.
Nel 2013 ci sono stati 10.000 attentati con circa 18.000 vittime, il 61% di più del 2012.
Un fenomeno in crescita ma molto più circoscritto di quanto si rappresenti sui mezzi di informazione. Delle circa 18.000 vittime infatti, almeno 15.000 sono perite in cinque paesi: Iraq, Siria, Nigeria, Afganistan e Pakistan. Sono paesi a stragrande maggioranza musulmana e le prime vittime dei terroristi non sono i cristiani, né le minoranze etnico-religiose dell’area mediorientale, piuttosto sono i musulmani, almeno nell’82% dei casi.
Non esiste insomma uno scontro di civiltà ma piuttosto un attacco disperato di una minoranza che sfrutta la religione a proprio vantaggio e agisce contro la propria comunità di riferimento. Insomma se mai dovesse esserci qualcuno che teme per la propria incolumità, questi dovrebbero essere i musulmani stessi, di gran lunga le prime vittime di questo fenomeno nefasto
.”
Gli attentati nei paesi occidentali (area OCSE) sono meno del 5% ma, pur avendo causato un numero basso di vittime, sono riusciti e stanno riuscendo a diffondere insicurezza e instabilità soprattutto nell’immaginario, contagiandoci con il morbo della paura.
Parlare alla “pancia” delle persone è la forza dei terroristi, di ieri come di oggi.
Avere paura è comprensibile, ma ricordiamoci che più noi abbiamo paura, più loro hanno vinto.
E’ su questo piano che dobbiamo batterli. La moltiplicazione ostentata di mitragliette ed autoblindo rappresenta più il simbolo della loro vittoria che la misura della nostra sicurezza.
La paura si vince più con la ragione che con la forza.

mercoledì 25 novembre 2015

ISLAM

Ho studiato un po’ l’Islam, la sua storia e la sua teologia.
Conosco la differenza tra sunniti e sciiti e ho visitato diversi paesi musulmani apprezzandone la cultura e l’arte, ma non mi sognerei mai di affermare di conoscere bene l’Islam e tanto meno di esprimere giudizi su convinzioni religiose che non ho mai vissuto.
Non mi sognerei mai di tranciare giudizi come vedo fare con criminale superficialità in televisione, sui giornali e sui social, da personaggi che non hanno la minima idea di cosa stanno parlando.
L’evoluzione dell’Islam, come quella di tutte le religioni, è complessa e non priva di contraddizioni.
Come potrebbe non essere complessa l’evoluzione di una convinzione nell’arco di 1.400 anni che attualmente coinvolge un miliardo e mezzo di persone distribuite in tutto il mondo?
E’ forse meno complessa e meno priva di differenze e contraddizioni l’evoluzione del cristianesimo?
Di fronte a questioni che riguardano convinzioni profonde di miliardi di persone, non sarebbe quanto meno prudente evitare affermazioni saccenti, semplificazioni ridicole, generalizzazioni da osteria?
Persone che hanno letto dieci righe della Fallaci, visto qualche foto su internet e ascoltato un paio di commenti fuori contesto si possono permettere di esprimere giudizi su una cultura millenaria?
Un cinese che avesse letto qualche riga di un saggio sulla mafia, visto qualche foto della periferia romana e ascoltato un comizio di Scilipoti potrebbe permettersi di esprimere un giudizio sulla cultura italiana?
Le culture, la storia, le religioni, le ideologie sono materiale delicato, infiammabile e a volte esplosivo perché riguardano le convinzioni profonde delle persone; vanno trattate (tutte) con prudenza, rispetto e attenzione.
Eviterei a maneggioni approssimativi e incoscienti di trattarle con superficialità, soprattutto davanti a una telecamera.

Altro è parlare di fatti drammatici, ricercarne le cause e reagire guidati dalla ragione, altro è attribuire paternità arbitrarie e dare per scontati rapporti di causa ed effetto che esistono solo nella testa di chi faticava anche con le tabelline (e si vede).

domenica 1 novembre 2015

IMPRESSIONI. APPUNTO.


Ho fotografato questa bambina nel 1980, trentacinque anni fa.
Vivevamo nello stesso villaggio ma non ricordo il suo nome.
Oggi -se è sopravvissuta alle difficoltà e alle guerre- sarà una donna di quarant’anni: mi piace immaginarla con figli e nipoti, intenta ad occuparsi della sua famiglia.
In questi anni sono successe molte cose: negli Stati Uniti si sono succeduti sei presidenti, in Italia ventisette governi e sei presidenti della repubblica, è finita la guerra fredda e in compenso ce ne sono state molte calde (Libano, Balcani, Cecenia, Rwanda, Kuwait, Afghanistan, Iraq, Darfur, Siria…), sono stati inventati Internet, Facebook, Wikipedia… .
Di tutto questo è probabile che questa bambina/donna non abbia neppure avuto notizia (con l’eccezione del genocidio nel vicino Rwanda), né tutto questo credo abbia sostanzialmente modificato la sua vita, i suoi sentimenti e le sue relazioni. Per noi e per lei sono passati gli stessi trentacinque anni, per noi con l’impressione di essere su un treno in corsa, per lei con l’impressione che nulla di importante possa cambiare.
Impressioni. Appunto.

giovedì 22 ottobre 2015

LA LEGALITÀ NON È OVVIA


Non è ovvia perché la complessità della società e (quindi) delle leggi che la regolano non consente più di “intuire a senso” cosa è legale e cosa no.

Non è ovvia perché non sempre ciò che è legale coincide con ciò che riteniamo giusto e ciò che è illegale con ciò che riteniamo ingiusto.

Non è ovvia perché –soprattutto nel nostro paese- lo scarto tra la norma e la prassi è spesso molto ampio e quasi sempre la prassi finisce per prevalere sulla norma.

Non è ovvia perché la realtà cambia spesso più velocemente delle leggi che dovrebbero normarla, creando “vuoti” in cui la legge del più forte o del più furbo si impone senza argini.

Non è ovvia perché, non fidandoci ciecamente della bontà e dell’efficacia della norma, non insegniamo (né in famiglia, né a scuola) il rispetto delle regole con sufficiente convinzione e rigore.


E allora?
Allora dobbiamo evitare che la divaricazione tra le regole e i comportamenti si acuisca ulteriormente, dobbiamo ridurre le “terre di nessuno” senza regole, dobbiamo accettare che non sempre il rispetto delle norme coincida con il nostro interesse immediato.
Tutto questo non perché vogliamo giocare ai piccoli tedeschi (che poi da grandi non sempre sono perfetti), ma perché se le regole non valgono avranno sempre ragione solo i più forti e i più furbi e perché il senso di responsabilità è l’assicurazione sulla vita dell’umanità.

mercoledì 24 giugno 2015

QUI ED ORA


La convinzione che il periodo storico in cui ci troviamo a vivere sia il più evoluto fin qui raggiunto dall’umanità è talmente radicata e pervasiva che non ha neppure più bisogno di essere espressa: è diventata il presupposto del nostro ragionare.

In gran parte questo dipende dalla indebita trasposizione dal piano della evoluzione tecnica (l’auto, la lavatrice, il telefono, internet…)  a quello della evoluzione del pensiero (Salvini è più evoluto di Kant?) e addirittura a quello etico della evoluzione dei valori (migliorano con gli anni come il vino? )

Ad illuderci ulteriormente  di essere al vertice di ogni possibile evoluzione c’è un’altra indebita estensione, questa volta non sull’asse temporale ma su quello culturale:  tendiamo cioè a ritenere che se un contenuto è considerato evoluto nella nostra cultura, lo sarà “ovviamente” anche per  tutte le altre. Come se i valori della nostra cultura fossero “assoluti” e dunque validi indipendentemente dal tempo e dal luogo in cui li trasponiamo. Ma non ha alcun senso ritenere “valori”  determinati atteggiamenti, priorità, comportamenti o aspirazioni a prescindere dalla cultura alla quale li riferiamo: essi potranno essere riconoscibili come valori o disvalori solo in relazione al luogo e al tempo in cui si considerano. 
Facciamo un esempio (volutamente non politicamente corretto) per evidenziare il corto circuito.
Nella evoluzione valoriale della nostra cultura occidentale “oggi” e “qui” consideriamo la pena di morte un disvalore;  ci sentiamo fieri di questa nostra convinzione e (tranne qualche forcaiolo che ci affrettiamo a biasimare) auspichiamo  che presto tutti i paesi del mondo si adeguino. Non saprei dire se sarà più facile convincere i cinesi o i texani, ma siamo certi che ormai sia solo questione di tempo: non abbiamo dubbi che si tratti di un valore assoluto, una illuminata consapevolezza raggiunta dopo secoli di miopìa etica.  Eppure per molti secoli tutti erano sinceramente convinti che la pena capitale per alcuni reati fosse la cosa più giusta e corretta che si potesse decidere. E non stiamo parlando solo di primitivi vandali o feroci mongoli, stiamo parlando di francesi del secolo dei lumi e di venerabili pontefici (solo tra il 1815 e il 1870 nello stato pontificio furono eseguite oltre 600 condanne a morte e Pio VII ripristinò la ghigliottina ritenendola un metodo “agile e veloce”).  Tutti stupidi, tutti invasati, tutti miopi? O semplicemente, esattamente come noi, tutti figli del loro “lì-ed-allora”  che vale tanto quanto il nostro “qui-ed-ora” ?
Ovviamente anche io sono figlio del qui-ed-ora e penso che la pena di morte sia inutile , crudele e insensata, ma non ha alcun senso giudicare il passato con gli occhi di oggi, come se fosse l’espressione di ottusi primitivi. Ci costa accettare di non essere i migliori “in assoluto” perché siamo intimamente convinti di esserlo, ma ogni epoca ha pensato di sé la stessa cosa. Anche in quelli che noi chiamiamo i “secoli bui” del medioevo erano convinti di essere più evoluti di chi li aveva preceduti.
Forse dovremmo liberarci da quest’ansia di primeggiare e soprattutto dall’ossessione di pretendere valori che siano validi “ovunque e sempre”, accettando serenamente  che il “qui-ed-ora” non è una limitazione che toglie valore a ciò di cui siamo convinti, ma -al contrario- è la condizione necessaria perché  il nostro agire e il nostro valutare abbiano significato.

domenica 24 maggio 2015

L'OSSESSIONE DEL CONFRONTO


Spesso mi capita di incontrare giovani alla ricerca di un lavoro che non trovano e ascolto -con sofferenza- alcune loro considerazioni  derivanti dal confronto fra la loro situazione e quella dei loro genitori.
Una delle più frequenti suona più o meno: “Alla mia età i miei genitori avevano già due figli e un lavoro sicuro, io senza lavoro non posso permettermi un affitto e non posso nemmeno andarmene di casa; figuriamoci mettere su famiglia! Perché? Di chi è la colpa?” oppure  “I miei genitori hanno una pensione che gli permette di vivere una vecchiaia serena e -per fortuna- di aiutare anche me, ma in futuro non sarà così. Che futuro mi aspetta? Con che coraggio posso pensare di avere dei figli?”
Alla durezza oggettiva della situazione si aggiunge l’amarezza del confronto con la generazione precedente che sembra aver goduto di circostanze economiche più favorevoli.



Ovviamente non è stato un merito allora e non è una colpa oggi essere capitati in un periodo storico nel quale (per certi aspetti) è stato meno difficoltoso progettare e costruire il proprio percorso.
L’andamento dell’economia non è una retta in continua progressione, assomiglia piuttosto a una curva che sale e scende in tempi spesso più lunghi della vita dei singoli individui:  chi vive nel periodo di crescita economica è certamente più fortunato (né più capace, né più felice!) di colui al quale capita il periodo di decrescita. E’ vero che non si tratta di fatalità e che l’economia e l’organizzazione sociale dipendono anche dalle scelte politiche di chi governa, ma –nel lungo periodo- le variabili sono talmente numerose e le connessioni talmente imprevedibili che è infantile pensare che i grandi processi economici e la distribuzione del lavoro nel mondo dipendano in maniera determinante dalla bravura di questo o quel governo.
Inoltre l’andamento dell’economia non è sincrono nelle diverse zone del mondo: nell’Europa degli anni ’50-’70  la curva era certamente in crescita (tanto veloce da generare l’illusione che quella crescita non sarebbe mai finita), non così -in quegli stessi anni- in India e in Cina; oggi avviene il contrario: in Europa la curva scende, in India e in Cina sale. E chissà quante altre volte nei secoli trascorsi la curva sarà andata su e giù, ora qui ora lì!. Se pur con diversi gradi di incertezza e difficoltà, ogni generazione ha cercato (e che altro avrebbe potuto fare?) di ottenere il meglio con le risorse disponibili (ed è per questo che oggi siamo qui a parlarne).
Capisco che possa apparire consolatorio, ma non serve incaponirsi nel confronto con la generazione che ci ha preceduto (e allora perché non quella dei nonni durante la guerra o dei bisnonni contadini o mezzadri?): costruire confronti impossibili serve solo a coltivare l’ossessione della sorte avversa che è un analgesico inefficace.
La partita si gioca sul futuro non sul confronto col passato.

sabato 31 gennaio 2015

IL BRIVIDO DELLA GIUSTA CAUSA

Ci sono convinzioni delle quali percepiamo razionalmente la non sostenibilità eppure -per qualche oscuro motivo- non riusciamo a rinunciarvi. Forse il motivo non è poi così oscuro, ma nessuno, quando comincia a sospettare che babbo natale non esiste, ha interesse ad indagare più di tanto…
Una di queste convinzioni si potrebbe formulare così: “Se siamo tanti a credere nella stessa cosa, quella cosa è giusta.”

A chi non è successo di trovarsi -almeno una volta-in una piazza gremita, gomito a gomito con migliaia e migliaia di altre persone con le quali sentiva sinceramente di condividere un ideale, una passione, una certezza, un impegno? Non importa che si trattasse di una “certezza” ideologica, politica, religiosa o artistica: l’eccezionalità era proprio nel percepire quella realtà -in quel momento- come assoluta, indiscutibile e imbattibile. L’emozione di una condivisione così estesa e il brivido della passione per uno stesso obiettivo hanno pochi rivali: chi si sognerebbe di mettere in dubbio la giustezza di una realtà così travolgente? A chi (dei presenti) verrebbe mai in mente di chiedersi se tutte quelle persone  sono lì perché pensano che quella realtà sia giusta o bella o vera o non sia invece che essa appare loro giusta, bella e vera proprio perché esse sono lì tutte insieme?

Non è difficile immaginare che anche i tedeschi infiammati per Hitler a Berlino nel 1935 o i crociati impazienti di riconquistare i luoghi sacri nel 1096, o i jihadisti dell’ISIS che si entusiasmano per Al-Baghdadi e il suo progetto di califfato, abbiano provato e provino -in assoluta buona fede- lo stesso brivido e la stessa emozione. E allora?  Forse quel brivido e quella emozione sono sempre garanzia di buona causa?

Certo che no. La passione e l’emozione sono la condizione perché le idee si affermino e le persone siano disposte a lottare e a morire per esse, ma questo non c’entra niente con la bontà delle idee. Eppure… eppure non riusciamo a rinunciarci, perché vagliare criticamente le nostre convinzioni, accettare di rivederle, esigere che siano coerenti con se stesse è certamente più impegnativo che  innamorarsi di una causa e farsi trainare dal gruppo.
Nessuno mette in dubbio che la passione è il motore della storia e della vita di ciascuno di noi, ma se bastasse la passione a decidere le buone cause, tanto varrebbe vivere allo stadio.

Per accendere il cuore non è necessario spegnere il cervello.