domenica 6 dicembre 2015

FAVOLOSO SOGGETTO PER UNA FICTION

Quando, alcuni anni fa, ho letto  “Il cacciatore di aquiloni” di Khaled Hosseini non credo di essere il solo ad aver pianto. Chi l’ha letto non può dimenticare l’amicizia profonda tra Amir e Hassan, i loro giochi d’infanzia in una Kabul ancora “normale” spazzati via da guerre e violenze, la naturale simmetria del rapporto tra due bambini prima incrinata e poi distrutta dall’esplosione del conflitto tra Pashtun e Hazara, tra sunniti e sciiti.
Quella lettura mi ha introdotto allo scenario afghano, mi ha dato le prime coordinate di un paese del quale in seguito ho appreso molto altro soprattutto dalla viva voce dei protagonisti costretti a fuggire da un paese che amavano e che amano ancora.

Immaginate ora, come se fosse una fiction “surreale”, una storia che parte da quello scenario.

Metti che un ragazzo di diciassette anni decida di cercare protezione all’estero pensando -come molti altri- di andare in Svezia senza avere la minima idea di dove fosse, solo perché gli hanno detto che lì accolgono i rifugiati.
Metti che attraversi fortunosamente Pakistan, Iran e Turchia e arrivi in Grecia, dove qualcuno gli proponga di organizzargli il viaggio fino in Svezia con tanto di documento intestato a “Paperino” e biglietto aereo con scalo in Italia.
Metti che nello scalo gli prendano le impronte digitali, gli ritirino il documento e lo lascino al suo destino.
Metti che la forza dei diciassette anni lo spinga comunque a continuare il viaggio anche senza aereo e senza documento e che riesca ad arrivare in nord Europa dove chiede protezione internazionale.
Metti che lo parcheggino in vari centri di accoglienza rimbalzandolo per cinque anni fra il mare del nord e il circolo polare per poi dirgli che no, la politica dell’accoglienza è cambiata e che la sua richiesta di asilo è rifiutata.
Metti che il ragazzo, ormai ventiduenne, decida allora di provare a chiedere asilo in Italia e riparta verso sud per arrivare a Roma dove, verificate le sue impronte, lo arrestano immediatamente spiegandogli che il suo nome non è il suo nome, che lui si chiama “Paperino” e che “Paperino” è stato condannato cinque anni prima per “possesso di documenti falsi”.
Metti che con il nome di “Paperino”, senza l’assistenza né di un legale né di un interprete, venga sbattuto dentro con una condanna a venticinque mesi non riuscendo a capire perché continuino a chiamarlo Paperino e che solo dopo un anno parenti ed amici (che per pagare l’avvocato si vendono anche l’anima) riescano ad ottenere che continui a scontare la pena ai domiciliari potendo uscire solo dalle 10 alle 12.
Metti che una mattina alle 9,50 “Paperino” esca per a buttare la spazzatura nel cassonetto di fronte al portone e rientrando a casa venga fermato per un controllo da una pattuglia della polizia di passaggio.
Metti che “Paperino” venga denunciato per “evasione” e che uno zelante magistrato gli revochi i domiciliari.
Metti che stasera “Paperino” dorma rinchiuso nel carcere di Rebibbia continuando a non capire cosa ha fatto di male e perché nessuno lo chiami col suo nome.
Metti che non è una fiction.

[Uno dei miei figli ha la stessa età di Paperino e non riesco a non immaginare come mi sentirei se fosse lui ad essere rinchiuso a Rebibbia, chiamato con un nome che non è il suo e senza nessuna possibilità di spiegare che non ha fatto niente di male. Mi sentirei come mi sento stasera.]

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