mercoledì 30 marzo 2016

DIMENSIONE PARALLELA



La prima domanda allo sportello è stata: “è la prima volta?” e “si”, per me era la prima volta.
E dopo un paio d’ore di attesa, discorsi surreali che ho ascoltato anche se non avrei voluto, richieste del tipo “lei chi è per lui?”, “attenda allo sportello 5 per il controllo biometrico”, “questo è il suo numero di identificazione: non lo dimentichi”… la moto lasciata per strada e il mondo quotidiano mi sono sembrati lontanissimi e -a quel punto- mi è apparso normale anche lo “svuoti le tasche nell’armadietto e ci metta anche la cinta e la cravatta”, e “digiti qui il suo codice e inserisca la mano per il riconoscimento”. Poi il portone di ferro, le feritoie con il vetro spesso e verdastro e, alla fine, la sala colloqui richiusa con la chiave da venti centimetri presa in prestito da un film americano.
Una mattinata in carcere per riabbracciare finalmente un ragazzo di poco più di vent’anni partito dall’Afghanistan per sfuggire ai talebani e rinchiuso ora in carcere a Roma per un reato che non ha neppure capito in cosa consista e costretto ad essere chiamato con un nome che non è il suo.
Gli hanno rubato l’identità, la libertà e lo trattano come un criminale, però gli danno da mangiare e il pomeriggio può anche giocare un po’ a pallone: io l’avrei presa molto peggio. Lui è più saggio: considera quanto gli accade solo un incidente di percorso e continua ad aspettare quella vita migliore che la forza dei suoi ventitré anni gli fa considerare certa e imminente.
Abbiamo anche parlato di avvocati, istanze, sentenze e ricorsi, ma il suo modo di reagire mi ha convinto che la vita in carcere è una sorta di dimensione parallela in cui il tempo è sospeso e la realtà esterna appare più o meno come una fiction di media qualità, in cui le cose accadono ma poi -spento il telecomando- la situazione rimane immutata.
Gli ho chiesto se desiderava o aveva bisogno di qualcosa. Vorrebbe un po’ di semi di zucca: “bruscolini” li chiamiamo a Roma e mi è sembrata una inconsapevole metafora.

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